Della pericolosità di fare giornalismo, un certo tipo di giornalismo, ci si accorge solo quando accade qualcosa che non rientra nella quotidianità delle cose. E' quel che sta succedendo in queste ore, con il Paese intero che sembra essersi accorto solo ora che Sigfrido Ranucci rientra nella variegata categoria dei giornalisti scomodi.
Attentato a Ranucci: come Costanzo, peggio di Costanzo
Che si dividono in due sottocategorie: quelli che lo sono perché, nel loro lavoro, non guardano in faccia nessuno e quelli che, invece, sono scomodi per la loro acquiescenza nei confronti del potente di turno, che li rende scarsamente credibili, spesso precipitandoli nella sfrenata piaggeria.
Ranucci rientra nella prima ''sezione'' per il lavoro che fa, da anni, e che lo ha reso facile bersaglio per chi, militando su un fronte ideologico diverso, lo considera come uno strumento per fare opposizione (oggi) o per annientare un potenziale nemico (ieri).
Un giornalismo fatto di indagini puntigliose, su argomenti spesso ignorati dagli altri media, corroborate da documenti e testimonianze, efficace, anche se talvolta condotto con una aggressività formale, come quando ad un ''no'' si risponde inseguendo l'intervistato. Che resta pur sempre un modo di fare giornalismo: questione di scelte. Ma ciò nulla toglie al rispetto che Ranucci si è conquistato. Anche se resta la riprovazione di chi vede le sue inchieste a senso unico.
Questione di interpretazione. Però, quale che sia il giudizio su Ranucci e sui giornalisti che lavorano con lui, l'attentato dinamitardo di cui è stato fatto oggetto è inaccettabile. O almeno dovrebbe esserlo da parte di tutti, a meno che non si cada nel comodo ''in fondo se l'è cercata'', come se dire e denunciare quasi giustifichi chi ne è colpito a reagire con la violenza. Ora la parola spetta agli inquirenti, e il passaggio delle indagini alla Procura antimafia di Roma dà l'indicazione dell'indirizzo che sembra abbiano imboccato i sospetti.
Resta, comunque, quasi un passaggio obbligato paragonare l'attentato a Ranucci a quello che, nel 1993, a Roma, vide come obiettivo Maurizio Costanzo, anche se parliamo di modi diversi di fare giornalismo: d'inchiesta, il primo, di analisi e commenti il secondo. A dimostrazione che a qualcuno fanno paura le domande scomode, allo stesso modo in cui lo fanno i commenti coraggiosi.
Quanto accaduto alimenterà una certa narrazione del Paese, quello che, genericamente, viene descritto - come ha fatto di recente lo stesso ministro dell'Interno Piantedosi - come potenzialmente a rischio di una nuova esplosione di violenza con una matrice ideologica.
Non è esattamente così, perché la bomba messa sotto l'automobile di Ranucci, per quella che è stata la fattura dell'ordigno e le modalità, riconduce alla criminalità, mafiosa o meno lo decideranno i giudici.
Ma, forse, questo attentato, rispetto a quello che per poco non costò la vita a Maurizio Costanzo, a Maria De Filippi, al suo autista e agli uomini della scorta, è ben diverso e, anche, peggiore.
Perché, come dimostrarono poi le indagini, chi voleva uccidere Costanzo intendeva stroncare la spirale di ribellione alla mafia di cui il giornalista e conduttore televisivo si era fatto vessillifero, ben sapendo di rischiare in prima persona.
Con Ranucci è diverso perché i suoi potenziali nemici non si muovono in un ambito di criminalità organizzata, ma di una criminalità tout-court, anche quella dei camici bianchi, quella che si alimenta, come un organismo parassita, succhiando la vita alle istituzioni, infiltrare, espugnate, violentate.
Sigfrido Ranucci ha fatto inchieste su quel mondo che sta a metà tra la politica (quella che si macchia di reati o tiene comportamenti censurabili) e il crimine. Tutto lascia pensare che chi ha fatto esplodere la bomba, che avrebbe anche potuto uccidere, appartenga necessariamente al secondo ''comparto'', ma gli interessi che animano la criminalità ''bianca'' sono tanti e tali da non fare escludere, apriori, nessuna ipotesi.