Cultura

Andy Kaufman: l’uomo che visse due volte (e forse di più)

Barbara Leone
 
Andy Kaufman: l’uomo che visse due volte (e forse di più)

“Quando è morto, mi hanno chiamato chiedendomi se fosse una trappola”, ha raccontato George Shapiro, storico manager di Andy Kaufman, al quotidiano spagnolo El País. Una frase che, se riferita a qualsiasi altro artista, parrebbe grottesca.

Andy Kaufman: l’uomo che visse due volte (e forse di più)

Ma Andy Kaufman non era un artista come gli altri. Era, piuttosto, un enigma ambulante. Un paradosso vestito da comico. Un illusionista dell’identità, per cui vita e performance erano, a ben vedere, la stessa cosa. A quarant’anni dalla sua morte – ammesso che si possa parlare di ''morte'' nel caso di un uomo che ha costruito la sua intera esistenza sull’ambiguità tra realtà e finzione – il documentario ''Comedy and Chaos: The Legacy of Andy Kaufman'', prodotto dai fratelli Safdie, tenta di raccontare non chi era Andy, ma cosa ci ha fatto.

Perché è questo il punto: Kaufman non si limitava a intrattenere, turbare o confondere: riscriveva i codici dell’umorismo, scardinava l’ordine prestabilito del comico. Era un sabotatore. Un uomo disposto a tutto pur di non far ridere nel modo convenzionale. Come ebbe a dire lui stesso, con orgoglio: ''Non ho mai raccontato una barzelletta in vita mia''.

Nato a New York nel 1949, vegetariano, astemio e non fumatore, morì di cancro ai polmoni nel 1984, a soli 35 anni. Una fine clinicamente limpida, ma narrativamente sospetta. Perché Kaufman, con un certo compiacimento, aveva più volte accarezzato l’idea di inscenare la propria morte, arrivando a incontrare il truffatore Alan Abel – celebre per avere finto il proprio decesso – per farsi dare qualche consiglio tecnico. Quando spirò davvero, ci fu chi dubitò che fosse reale. Carol Kane, sua collega nella sitcom Taxi, confessò di aver infilato un dito nel cadavere per accertarsene. Non un atto di follia, ma l’unica reazione sensata al cospetto di un uomo che aveva passato la vita a mentire con tale maestria da rendere la verità un’ipotesi improbabile.

Perché Andy Kaufman non interpretava personaggi: li diventava.
Il più celebre – e disturbante – dei suoi alter ego fu Tony Clifton, un cantante fallito, viscido e alcolizzato, che insultava il pubblico, mangiava bistecche al sangue e si ubriacava di whisky. Kaufman – che nella vita reale non toccava né carne, né alcol – calzava Clifton come un guanto. E in quel travestimento brutale si abbandonava a una sorta di catarsi velenosa, un rituale teatrale in cui si concedeva l’oscenità, l’offesa, la sregolatezza.

"Era capace di leggere le persone'', racconta il fumettista Box Brown, ''e se volevano arrabbiarsi, lui le incitava. Ma non lo faceva per cattiveria. Voleva solo rendere le loro giornate più strane, più memorabili''. Nel mondo del wrestling, sarebbe stato definito un cowardly heel: il cattivo codardo. E infatti, in un’altra delle sue creazioni più controverse, Kaufman si proclamò campione mondiale di wrestling unisex, arrivando ad offrire fino a mille dollari di premio alla donna che fosse stata in grado di batterlo, e sfidando le donne in TV al grido di: ''Vi rimanderò in cucina, cui appartenete!''.

Piccolo problema: siamo nei primi anni Ottanta, e quindi nel pieno della seconda ondata femminista. E così, le immagini dell'artista che picchiava donne sul ring suscitarono indignazione diffusa.
''A volte dicevo alla gente che Andy Kaufman era il mio ragazzo”, racconta Lynne Margulies, sua compagna all’epoca, ''e molte donne rispondevano: ‘Oh, andiamo! Lo odio! Quella storia del wrestling è orribile!’ Ma io... io l’ho trovata divertente''.

Più tardi, raccolta al volo la sfida lanciata dal campione di wrestling Jerry Lawler, Andy Kaufman decise di fare il grande salto: niente più donne sul ring, stavolta avrebbe affrontato un uomo, e che uomo. Il match, che si disputò a Memphis, nel Tennessee, finì con una vittoria di Kaufman, sì… ma solo per squalifica. Una vittoria tecnica, diciamo, abbastanza da far impazzire i fan e infiammare la farsa. La rivalità proseguì in grande stile con un finto infortunio al collo – completo di collare e lamentele strazianti – e una rissa improvvisata e memorabile in diretta al Late Night with David Letterman, dove i due finirono per urlarsi addosso e (quasi) menarsi, tra lo sconcerto e l’ilarità del pubblico.

Kaufman, d’altronde, era di casa da Letterman: ci tornò una decina di volte, trasformando ogni apparizione in un mini-capitolo della sua personale saga dell’assurdo. In una puntata si dichiarò senzatetto e chiese soldi agli spettatori; in un’altra, annunciò con aria solenne di avere tre figli adottivi – salvo poi presentare tre uomini afroamericani adulti, lasciando lo studio tra il confuso e l’ammirato.
Nel documentario si rievoca anche un dettaglio biografico che vale più di mille teorie psicoanalitiche. Kaufman, da bambino, visse un trauma profondo: la morte del nonno, Papu. I genitori, nel tentativo di proteggerlo, gli nascosero la verità per anni. Andy, allora, si isolò nella sua stanza, circondato da pupazzi e programmi TV.

Il teatro dell’assurdo era già in costruzione. E in effetti, l’intera carriera di Kaufman si potrebbe leggere come un prolungato, straziante tentativo di ricucire il vuoto dell’infanzia. Non si può spiegare altrimenti l’ostinazione con cui cercava di fondere intimità e performance. In una scena del documentario, una sua ex fidanzata racconta di avergli chiesto, in un momento di tenerezza, di comportarsi da ''normale ragazzo innamorato''. Kaufman rispose con una parodia delle smancerie da fidanzato, incapace com’era di separare l’essere dall’apparire.

Nemico della banalità, allergico alla prevedibilità, accettò con riluttanza il ruolo di Latka Gravas nella sitcom Taxi. I copioni gli stavano stretti, l’idea di ripetere battute gli sembrava mortificante. Per questo cercò di sabotare se stesso: si fece licenziare sotto mentite spoglie di Tony Clifton, devastando il set, insultando i colleghi e lasciandosi scortare via dalla sicurezza. Eppure, anche nei suoi fallimenti, Kaufman costruiva qualcosa. Lo dimostra il famigerato incidente nel programma Fridays, in cui si rifiutò di recitare una battuta sulla droga. Michael Richards – futuro Kramer in Seinfeld – perse le staffe. Ne scaturì una rissa in diretta.

Solo anni dopo si scoprì che anche quella era probabilmente una messinscena. “Era tutto pianificato”, affermò Richards. Vero o no, gli ascolti schizzarono alle stelle. La sua cacciata dal Saturday Night Live fu invece autentica. Il pubblico, interpellato con un referendum popolare, votò per l’espulsione. "Molti di noi credono che Kaufman non sia più divertente", annunciò con glaciale serietà il produttore Dick Ebersol. Kaufman si sentì tradito. Non capì – o forse sì – che la sua arte, così spiazzante, non era destinata alla televisione generalista. Era troppo avanti, troppo scomoda. Troppo Andy.

Nel 2023, la WWE ha inserito Andy Kaufman nella sua Hall of Fame. Un riconoscimento tardivo, ma inevitabile. Perché, come osserva ancora Box Brown: ''Era talmente bravo a essere odioso che ha fatto credere alla gente che il wrestling fosse una cosa seria''. E questa, forse, è stata la sua vittoria più grande. Negli istanti finali del documentario ''Comedy and Chaos'', appare un cartello scritto da Kaufman stesso: ''Ciò che è sconosciuto diventa più grande''. Un epitaffio perfetto. Perché Andy Kaufman non ci ha lasciato né battute, né morali, né spiegazioni. Ci ha lasciato un dubbio. Ed è in quel dubbio che, ancora oggi, lui vive.

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