Attualità
Padri separati, uomini vulnerabili
di Walter Rodinò

C’è una parola che attraversa come un brivido le storie dei padri dopo una separazione: vulnerabilità. È la vulnerabilità di chi esce di casa con due borse e un mucchio di conti, di chi cerca un monolocale con affitti impossibili, di chi fa i turni per non perdere un’ora con i figli, e che sceglie di togliere a sé pur di non togliere a loro. È la vulnerabilità, troppo spesso taciuta perché “un uomo deve farcela”, che diventa precarietà economica, solitudine psicologica, invisibilità sociale.
Non è una guerra tra poveri. Le madri separate portano sulle spalle pesi enormi, e i numeri lo dicono con crudezza, in Italia il divario occupazionale tra padri e madri con figli minori è vicino ai 29 punti percentuali, i padri lavorano per oltre il 90% dei casi, mentre tra le madri, specie sole, lavora poco più di una su due. È la “child penalty” che scarica sul lavoro femminile il prezzo della genitorialità, soprattutto dove mancano servizi e reti. Ma proprio per questo, se vogliamo davvero parità genitoriale, dobbiamo accendere il faro anche su chi, dopo la separazione, scivola ai margini in silenzio: i padri.
Sul piano del diritto, un passo avanti importante è arrivato dalla Corte di Cassazione, che con l’ordinanza n. 14358 del 29 maggio 2025 ha affermato che l’assegno di mantenimento dev’essere sostenibile per il genitore obbligato, proporzionato alle capacità economiche attuali (art. 337-ter c.c.). Nel caso concreto: stipendio 1.500 euro, assegno 642 euro. La Suprema Corte richiama il principio di proporzionalità e impone di considerare i peggioramenti reddituali e anche l’eventuale nuova relazione stabile del beneficiario, che può incidere sul diritto all’assegno. Non è un’agevolazione per sottrarsi ai doveri, ma un richiamo alla dignità di chi mantiene e vuole restare padre presente senza essere spinto alla marginalità.
C’è poi il tema che brucia di più, la casa familiare. La legge e la giurisprudenza ricordano che l’assegnazione serve a tutelare i figli e il loro habitat, non a riequilibrare i redditi degli adulti. Eppure, nella prassi, non è raro assistere a automatismi che allontanano il padre dall’abitazione, anche quando è la parte più fragile dal punto di vista economico. La bussola dev’essere una sola, e cioè l’interesse del minore, valutato caso per caso, senza scorciatoie culturali del tipo “i figli stanno con la mamma, perché è la prassi”.
La politica, intanto, inizia a muoversi. Nel pacchetto famiglia della prossima manovra, il Governo ha annunciato misure dedicate ai genitori separati con difficoltà abitative, un contributo “tangibile”, nelle parole del vicepremier Matteo Salvini, insieme all’esclusione della prima casa dall’ISEE entro un certo valore catastale e a incentivi per l’occupazione femminile e la conciliazione. È un segnale di equità sociale se, e solo se, verrà tradotto in norme chiare e fondi adeguati, perché i “padri del cofano”, quelli che dormono in auto per pagare l’affitto ai figli, non possono restare una statistica commovente senza risposta.
Dietro gli articoli di legge ci sono le persone. Le mense e i centri di ascolto raccontano la nuova povertà, famiglie monogenitoriali, madri sole, padri separati, giovani precari. A Bologna, l’Antoniano ha registrato negli ultimi anni un forte aumento di famiglie e minori assistiti, nel 2024 oltre 84 mila pasti distribuiti e migliaia di ceste alimentari. Non si chiedono elemosine, si chiedono ascolto, lavoro, casa, tempi per i figli.
E poi c’è la ferita che non ammette retorica: la salute mentale. I dati ufficiali dicono che nei suicidi in Italia quasi 4 su 5 sono uomini. Gli studi internazionali e la clinica segnalano un rischio più alto tra uomini separati o divorziati, un allarme che chiama in causa servizi psicologici accessibili, reti territoriali, mediazione familiare di qualità. Smettiamo di rincorrere numeri gonfiati o slogan, prendiamo sul serio la prevenzione, con strumenti basati su evidenze. La vulnerabilità non è una colpa.
Di cosa c’è bisogno dunque? Bisogna riconoscere che la bigenitorialità è un diritto dei figli, non una medaglia da appuntare ai genitori. Che le madri vanno sostenute sul lavoro e nei servizi, perché senza di loro crolla tutto, e che i padri non sono “ospiti del weekend”, ma caregiver a pieno titolo se la giustizia e i servizi glielo permettono.
Bisogna correggere le distorsioni applicative, niente automatismi sulla casa, niente “prassi” che sostituiscono l’istruttoria, assegni proporzionati e modulabili in base alle condizioni reali, attenzione alle nuove convivenze quando incidono sull’equilibrio economico. La Cassazione ha indicato la strada, ora i tribunali di merito devono percorrerla fino in fondo.
Bisogna accompagnare con politiche concrete, con sostegni all’affitto per i genitori separati, mediazione familiare gratuita e tempestiva, psicologia di base accessibile, orari flessibili e congedi davvero paritari, potenziamento dei servizi educativi. Non carità, ma diritti, così si spezza la catena che lega fragilità economica, isolamento e conflitto.
In fondo, la domanda è semplice: che Paese vogliamo essere? Uno che lascia scivolare i padri ai margini in nome di abitudini antiche, o uno che abbraccia la complessità senza paura, che protegge i figli attraverso entrambi i genitori e che trasforma la vulnerabilità in forza condivisa? La risposta non sta in un’aula sola, né in un decreto, la risposta sta nella nostra capacità di guardare in faccia questa realtà e di costruire, insieme, un nuovo patto di cura.