La vicenda della famiglia che vive nel bosco di Palmoli scuote e lascia interdetti, non per il contenuto del provvedimento adottato dal Tribunale minorile de L’Aquila. Impressiona il paradosso. Viviamo in una società che ha saputo aprirsi a modelli familiari plurali, non tradizionali, unioni omogenitoriali, famiglie ricomposte, genitorialità condivise, figli nati da percorsi non convenzionali e riconosciuti con sempre maggiore pienezza anche nelle aule dei tribunali. Un processo culturale e giuridico che ha abbracciato la diversità come valore e considerato la famiglia come una costruzione affettiva, non più vincolata alle forme del passato. Ma, ed è qui che nasce l’incongruenza, quando una famiglia sceglie una strada differente, non tecnologica, non urbanizzata, non conforme alle abitudini dominanti, la risposta delle istituzioni diventa immediatamente drastica. La stessa società che celebra ogni ampliamento del concetto di famiglia, interviene con sorprendente durezza proprio contro una famiglia che ha scelto un modello alternativo di vita.
I genitori di Palmoli hanno deciso di vivere in un bosco, in una condizione essenziale, fuori dal mondo accelerato, iperconnesso e standardizzato. Una scelta radicale, certo. Forse discutibile. Sicuramente impegnativa. Ma pur sempre una scelta. Il Tribunale, nel suo provvedimento, ha posto al centro la sicurezza dei minori, un principio che nessuno può mettere in discussione. Ha rilevato l’assenza di condizioni igieniche adeguate, la mancanza di agibilità, la distanza dai servizi e il rifiuto dei genitori di accettare controlli sanitari. Formalmente tutto corretto. Lo Stato ha un dovere assoluto, quello di proteggere i bambini.
Ma la domanda sorge spontanea: perché questa fermezza esiste qui e non altrove? Perché migliaia di bambini vivono quotidianamente in contesti violenti, tra droga, abusi, alcol, degrado, delinquenza abituale, senza che lo Stato intervenga con la stessa rapidità e determinazione? Perché in tanti casi di cronaca nera scopriamo, troppo tardi, che i servizi sociali sapevano ma non hanno agito? Che le scuole segnalavano, ma nessuno è intervenuto? Che i vicini sentivano urla e litigi continui, eppure tutto è rimasto immobile fino all’irreparabile? Perché la mano dello Stato si abbatte con forza sulla famiglia nel bosco, ma si diluisce in molti casi in cui i bambini vivono davvero in condizioni drammatiche e pericolose? È proprio questa dissonanza che ci costringe a riflettere sul paradosso della libertà contemporanea, la “libertà 2.0”. Viviamo in una democrazia che si proclama fluida e inclusiva, una società che dissolve progressivamente tutte le antiche strutture, la famiglia tradizionale, i ruoli, le gerarchie, le identità, e che si presenta come il tempio della libertà individuale.
Ma questa libertà è autentica o è una libertà condizionata e regolata? Una libertà che accetta il nuovo, purché il nuovo sia coerente con il mondo contemporaneo. Una libertà che tollera tutto, tranne chi vuole vivere davvero fuori dal sistema. Perché, se riflettiamo bene, il caso Palmoli mette in scena proprio la tensione tra libertà e controllo, tra pluralismo e omologazione. La famiglia che ha deciso di vivere nel bosco non rientra nel catalogo delle differenze ammesse. Non è la diversità moderna e progressista. È una diversità autonoma. E quando la libertà prende questa forma, il sistema reagisce non con accompagnamento, ma con interdizione. Non con gradualità, ma con ordine immediato. Perché una parte dell’opinione pubblica, compreso il sottoscritto, è così scossa dal provvedimento del Tribunale minorile de L’Aquila? Perché pensa che la sicurezza dei bambini deve essere garantita sempre, non a geometria variabile. Non può essere invocata con durezza solo contro chi vive fuori dall’omologazione, mentre resta un sussurro timido nei casi, ben più gravi, di famiglie realmente pericolose.
Il caso Palmoli non chiede di schierarsi a favore o contro quei genitori. Chiede che la democrazia sia coerente con sé stessa, che la libertà sia tutelata senza pregiudizi. Che la protezione dei minori non dipenda dalla conformità dei genitori ai modelli dominanti. Forse stiamo entrando in una “democrazia 2.0” che proclama l’individuo, ma teme l’individualità. Una società in cui tutto cambia, ma non cambia l’antica spinta all’omologazione. E allora il caso di Palmoli non è solo una vicenda giudiziaria, è un avvertimento sul tipo di mondo che stiamo costruendo. Un mondo dove la libertà esiste finché non disturba, finché non interroga la norma. La domanda vera è: abbiamo ancora il coraggio, e il diritto, di decidere noi stessi chi vogliamo essere?