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“Itaca. Il ritorno”: Ralph Fiennes è Ulisse in un’Odissea dove è assente il divino

di Teodosio Orlando
 

Il regista Uberto Pasolini dall’Onda – noto al pubblico per film come Still Life e Nowhere Special, nonché come produttore di Full Monty – irrompe quasi a sorpresa nelle sale cinematografiche con Itaca. Il ritorno: è un’opera che si distacca audacemente dalle tradizionali interpretazioni cinematografiche dell’epica omerica, offrendo una rilettura intima e profondamente umana del mito di Odisseo. L’epopea di Omero viene affrontata in un solo segmento e viene quasi privata delle consuete creature mostruose, apparizioni magiche e interventi divini. Il film, che si concentra sul ritorno del protagonista alla sua terra natale dopo anni di guerra, opta per una narrazione cruda e terrena, dove non c’è spazio per il sovrannaturale. Questa scelta, lungi dall’essere un limite, diventa il punto di forza del film, permettendo allo spettatore di immergersi nella psicologia dei personaggi e nelle loro lotte interiori. Le stesse scene d’azione, così tipiche ormai della produzione hollywoodiana, sono confinate all’ultima mezz’ora del film, lasciando spazio a un dramma universale che parla di perdita, speranza e riconciliazione. 

Nell’Odissea, gli dèi intervengono costantemente nelle vicende umane: Atena guida e protegge Odisseo, Poseidone lo perseguita, e Zeus media tra le divinità. La mancanza degli dèi non è solo una scelta estetica, ma anche filosofica. Pasolini ci invita a riflettere sulla condizione umana in un mondo privo di interventi “numinosi”, dove la redenzione e la giustizia devono essere conquistate attraverso la fatica e il sacrificio. Odisseo, splendidamente interpretato da un “sofferente” Ralph Fiennes, non è più l’eroe astuto e favorito dalle entità ultraterrene, ma un uomo sfinito dalla guerra, costretto a confrontarsi con i propri demoni interiori. Penelope, magistralmente interpretata da Juliette Binoche, non attende più passivamente il ritorno del marito, ma lotta per mantenere il controllo sulla sua casa e sul suo destino.

L’assenza degli dèi non è priva di conseguenze, anche se, nel vedere l’atteggiamento dei protagonisti verso la dimensione del soprannaturale, viene in mente una battuta di un personaggio della commedia I cavalieri di Aristofane, citato, inter alios, da Søren Kierkegaard: interrogato sull’esistenza degli dèi, Nicia risponde positivamente, ma con una soluzione fulminante: gli dèi esistono “perché mi perseguitano ingiustamente” (v. 33). Del resto, lontano dalla protezione di Atena o dall’ira di Poseidone, Odisseo si presenta come un uomo distrutto dalla guerra, segnato da un senso di colpa che lo avvicina più ai protagonisti della tragedia shakespeariana che all’eroe invincibile cantato dai rapsodi. E per molti versi il film sembra un compromesso nobile tra lo spirito della tragedia antica, di marca sofoclea, e le tragedie di Shakespeare. 

La Penelope di Juliette Binoche, tormentata da un’incertezza che non esiteremmo a definire “amletica”, incarna una donna moderna, combattuta tra l’amore per un marito idealizzato e la dura realtà della sua lunga assenza. Telemaco, interpretato da Charlie Plummer, affronta la ricerca della propria identità senza il sostegno di un padre-eroe, rendendo il suo viaggio verso la maturità dolorosamente autentico, con toni che richiamano la sezione chiamata Telemachia nello Ulysses di James Joyce, dove il ruolo di Telemaco è affidato al giovane Stephen Dedalus, artista squattrinato alla ricerca della sua identità.

Un altro elemento distintivo del film è l’uso dell’inglese aulico, una scelta che eleva i dialoghi a un livello quasi teatrale. Questa lingua solenne e ritmica, che evoca le atmosfere delle tragedie shakespeariane, trasforma l’Odissea in un dramma quasi rinascimentale. I personaggi, pur calati in un contesto epico, sembrano animati da conflitti interiori e dilemmi morali che richiamano figure come Macbeth o Re Lear, dando ai dialoghi i toni della  poesia drammatica. Il linguaggio del film, pur mantenendo una certa modernità, evoca la grandiosità e la gravità del testo omerico, avvicinandosi ad un tempo quasi alla cadenza shakespeariana. Questo approccio linguistico non solo conferisce al film un’atmosfera epica, ma permette anche di esplorare le complessità psicologiche dei personaggi attraverso un linguaggio ricco e stratificato. Ralph Fiennes, con la sua voce profonda e carismatica, incarna perfettamente questa fusione tra Omero e Shakespeare. La sua interpretazione di Odisseo è intrisa di una malinconia regale, che ricorda i grandi eroi tragici del teatro elisabettiano. Juliette Binoche, d’altra parte, dona a Penelope una dignità e una forza che trascendono il tempo, trasformandola in una figura quasi mitologica, ma profondamente umana. Il dialogo tra Odisseo e Telemaco, interpretato da Charlie Plummer, è un esempio emblematico di questa fusione tra epica e dramma. Le parole scambiate tra padre e figlio sono cariche di tensione emotiva, ma anche di una solennità che ricorda i grandi monologhi shakespeariani. Del resto, la sceneggiatura, curata da Pasolini insieme a John Collee ed Edward Bond, abbraccia un registro che amplifica la tensione emotiva, senza mai scadere nell’enfasi gratuita.

Questo uso del linguaggio è particolarmente evidente nei confronti tra Odisseo e Penelope, dove ogni parola sembra carica di sottintesi, rimpianti e speranze represse. Le interpretazioni intense di Ralph Fiennes e Juliette Binoche riescono a dare vita a un dialogo che oscilla tra il rimprovero e la riconciliazione, restituendo la complessità di un rapporto segnato dalla distanza e dal tempo. E Penelope è l’unica figura femminile di rilievo. Nel film, l’assenza di Atena priva Odisseo di una guida divina, rendendolo vulnerabile e solo di fronte ai suoi nemici. Questo fattore è particolarmente evidente nel momento in cui Odisseo affronta i Proci. Nell’Odissea, l’eroe è sostenuto da Atena, che lo aiuta a compiere la strage dei pretendenti. Nel film, invece, Odisseo agisce da solo, e la violenza che scatena è brutale, priva di qualsiasi giustificazione divina. Questo rende la scena ancora più potente e disturbante, poiché lo spettatore è costretto a confrontarsi con la crudeltà umana in tutta la sua nudità.

Anche le scene dell’effettivo ritorno sono prive di predestinazioni o di profezie: Odisseo torna solo grazie alla sua tenacia. Il ritorno non è trionfo, ma riconquista dolorosa. Anche la celebre scena del riconoscimento tra Odisseo e il cane Argo, commovente nell’Odissea, è nel film un momento di intenso silenzio che sottolinea la fragilità del legame con il passato. Questo momento, inoltre, richiama con forza un passo della novella L’immortale di Jorge Luis Borges, dove un Omero eterno, tra le nebbie del ricordo, riscopre i versi su Argo che aveva scritto mille anni prima. La memoria del mito, in Borges come in Pasolini, si rivela un ponte fragile ma potente verso l’identità perduta.

Anche i famosi versi (409-411) del canto XXI dell’Odissea (ὣς ἄρ' ἄτερ σπουδῆς τάνυσεν μέγα τόξον Ὀδυσσεύς./δεξιτερῇ δ' ἄρα χειρὶ λαβὼν πειρήσατο νευρῆς·/ἡ δ' ὑπὸ καλὸν ἄεισε, χελιδόνι εἰκέλη αὐδήν: “così senza sforzo tese il grande arco, Odisseo/Poi con la mano destra pizzicò e provò il nervo/che bene gli cantò sotto, simile a grido di rondine”, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti), nel film, diventano una metafora della riconquista della propria identità da parte di Odisseo. Nel confronto con l’Odissea, il film richiama anche il mondo shakespeariano. Il duello tra Amleto e Laerte nell’Amleto (Atto V, Scena II) può essere accostato alla scena in cui Odisseo affronta i Proci. In entrambe le opere, il confronto fisico è il culmine di tensioni emotive e morali: “I am justly killed with mine own treachery” (“Io sono stato giustamente ucciso dal mio inganno”), esclama Laerte riconoscendo il proprio errore.

Nel film, la lotta con i Proci diventa una resa dei conti simbolica, in cui Odisseo deve affrontare non solo i suoi nemici, ma anche il senso di colpa e il peso delle proprie scelte. La Penelope di Juliette Binoche si distingue per la sua modernità, rappresentando una donna intrappolata tra il desiderio di proteggere suo figlio e la speranza del ritorno del marito. Invece, la Penelope interpretata da Irene Papas nel classico L’Odissea (1968) è più fedele al modello omerico, incarnando con rigore la moglie paziente e devota, quasi un’allegoria della fedeltà. Paradossalmente, la fedeltà assoluta al testo originale di Irene Papas sembra smentire il principio metafisico di identità, sfidando con ironia l’idea che un personaggio debba evolversi per rimanere autentico. Questa differenza sottolinea il coraggio del film di Pasolini nell’adattare i personaggi alle esigenze narrative e psicologiche del pubblico contemporaneo. "ἀλλά μοι ὧδ' ἀνὰ θυμὸν ὀΐεται, ὡς ἔσεταί περ•/οὔτ' Ὀδυσεὺς ἔτι οἶκον ἐλεύσεται, οὔτε σὺ πομπῆς/τεύξῃ, ἐπεὶ οὐ τοῖοι σημάντορές εἰσ' ἐνὶ οἴκῳ, (“Ma io purtroppo così penso in cuore, come sarà:/non tornerà più a casa Odisseo, e tu non avrai/l’accompagno, poiché non ci sono più in questa casa padroni”, Odissea, XIX, vv. 312-315 traduzione di Rosa Calzecchi Onesti). Queste parole, pronunciate dalla nutrice di Telemaco, Euriclea, a Penelope, riflettono la disperazione e la rassegnazione che caratterizzano gran parte del film. Penelope incarna questa lotta tra speranza e disillusione, tra fede e realtà.

Il capitolo “Odisseo, o mito e illuminismo” della Dialettica dell’illuminismo dei filosofi tedeschi Max Horkheimer e Theodor Adorno offre una lente critica per analizzare il film. Gli autori descrivono l’Odissea come un racconto di emancipazione: Odisseo incarna l’uomo moderno che si affranca dalla natura attraverso l’astuzia e il dominio della razionalità. Pasolini, tuttavia, sembra spingere questa interpretazione oltre, presentando un Odisseo che ha perso anche l’illusione del controllo: la guerra lo ha disumanizzato, e il ritorno a casa non è una vittoria, ma un confronto con le macerie lasciate dietro di sé.
Questa lettura si inserisce nel progetto più ampio di Adorno e Horkheimer, secondo cui il progresso illuminista si accompagna a un processo di disincanto, in cui gli uomini perdono il contatto con il mito e con la dimensione trascendente dell’esistenza. In Itaca. Il ritorno, la sparizione degli dèi segna proprio questo disincanto, lasciando i protagonisti nudi di fronte alla crudezza della loro condizione
umana.

Itaca. Il ritorno è un film che osa sfidare le aspettative, reinterpretando un classico senza tempo con una sensibilità moderna. L’assenza degli dèi, l’uso di un linguaggio aulico e la centralità dei conflitti interiori trasformano l’Odissea in una tragedia contemporanea, che parla direttamente al nostro tempo. Uberto Pasolini ci invita a guardare oltre il mito, scoprendo l’umanità che si cela dietro la leggenda.

Da parte nostra, vorremmo aggiungere una sorta di excursus nella tradizione letteraria e musicale, per mostrare che il film non è solo una rilettura cinematografica dell’Odissea, ma anche un’opera che si inserisce in un solco letterario e filosofico profondamente radicato nella cultura occidentale. Il mito di Ulisse, infatti, ha ispirato innumerevoli interpretazioni e rielaborazioni, da Dante a Joyce, da Tennyson a Kavafis, ciascuna delle quali ha aggiunto una nuova sfumatura alla figura dell’eroe omerico. In questo contesto, il film di Pasolini dialoga implicitamente con questa tradizione, offrendo una visione contemporanea di un mito senza tempo. Ci siamo avvalsi in particolare del libro di Piero Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito (Bologna, Il Mulino, 1992) e di quello di Edith Hall, The Return of Ulysses, London, Tauris, 2008.

Nel ventiseiesimo canto dell’Inferno, Dante incontra Ulisse nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, condannato per gli inganni perpetrati durante la guerra di Troia. Il racconto del “folle volo” oltre le colonne d’Ercole rappresenta, per il Sommo poeta, l’emblema della superbia umana che tenta di superare i limiti imposti da Dio. Ulisse, spinto dal desiderio di una maggior conoscenza (“Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza”, vv. 118-120), esorta i suoi compagni a compiere un viaggio impossibile, che li porta a naufragare prima di raggiungere la montagna del Purgatorio. Anche nel film di Pasolini il tema della finitezza umana e della ricerca di redenzione rimane centrale. La lotta interiore del protagonista ricorda quella dell’Ulisse dantesco, ma senza la dimensione teologica: qui, la redenzione non è concessa dalla Grazia divina, ma deve essere conquistata attraverso il confronto con sé stessi e con gli altri.

Il poeta romantico inglese Alfred Tennyson, nel suo poema Ulysses (1842), presenta un Ulisse anziano e insoddisfatto, che rifiuta di accettare la passività della vecchiaia e decide di intraprendere un ultimo viaggio “oltre il tramonto” (beyond the sunset). Questo Ulisse romantico, spinto da un’irrefrenabile sete di avventura, rappresenta l’eterno desiderio umano di superare i propri limiti, anche a costo di mettere a rischio la propria vita. Nel film questa tensione tra il desiderio di avventura e la necessità del ritorno è presente, ma con un’inversione di prospettiva. Odisseo non cerca più di fuggire, ma di tornare, di riconciliarsi con la sua famiglia: ma è comunque scisso tra il passato glorioso e un presente incerto.

Anche Ugo Foscolo, nel sonetto A Zacinto, vede in Ulisse una metafora dell’esilio e della condizione umana. Per Foscolo, l’eroe omerico rappresenta la nostalgia per una patria perduta, un tema che risuona profondamente nel film di Pasolini. Odisseo, tornato a Itaca, non trova più la casa che aveva lasciato, ma un luogo trasformato dalla guerra e dal tempo. La sua lotta per riconquistare il proprio posto nel mondo ricorda quella del Foscolo esule, costretto a vivere lontano dalla sua amata Zacinto.

Giovanni Pascoli, nei Poemi conviviali, interpreta Ulisse come un personaggio moderno, deluso e alla ricerca della propria identità. Nella poesia L’ultimo viaggio, l’eroe omerico ammette che il suo sogno non era altro che “vento e fumo”, e la sua nave naufraga simbolicamente di fronte all’impossibilità di cogliere il vero senso delle cose. Negli stessi anni, Gabriele D’Annunzio, scrivendo Maia, la prima delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, vede in Ulisse il modello del superuomo, lo Übermensch di Nietzsche (che, contrariamente a quanto si dice abitualmente, il poeta abruzzese aveva capito perfettamente, come si evince dalla poesia Per la morte di un distruttore), capace di issare le vele e navigare vero la vita nella sua pienezza dionisiaca. Questo Ulisse dannunziano, sprezzante del pericolo e alla ricerca della gloria, è l’antitesi dell’Odisseo di Pasolini, che invece è profondamente segnato dalle esperienze traumatiche della guerra.

James Joyce, nel suo romanzo Ulysses, trasforma l’eroe omerico in un antieroe moderno, Leopold Bloom, che vive in un solo giorno le ventennali peregrinazioni di Odisseo. Questo capovolgimento ironico del mito rappresenta una delle interpretazioni più innovative del personaggio, che diventa emblema delle virtù e dei vizi umani. 

In modo simile, Umberto Saba, nella poesia Ulisse, interpreta il mito di Odisseo come una costante disponibilità agli impulsi del profondo, in solitudine e dolore. L’Ulisse di Saba è incapace di concludere l’ultimo momento dell’esistenza, la morte, e rappresenta la condizione umana in tutta la sua fragilità. Anche Salvatore Quasimodo, nella poesia L’isola di Ulisse, adombra la rinascita di un’isola mediterranea grazie ad una prodigiosa metamorfosi. Dei canti delle Sirene si odono soltanto “risonanze effimere”. Invece, Cesare Pavese, con l’Ulisse della poesia inclusa nella raccolta Lavorare stanca (1936), riduce il mito a un rapporto conflittuale con Telemaco, al punto da far pensare a un abitante delle Langhe piuttosto che al re di Itaca (quello che invece nei Dialoghi con Leucò Pavese fa dialogare con Calipso).

Kostantinos Kavafis, nella celebre poesia Itaca, offre una visione più ottimistica del viaggio, che diventa metafora della vita. Per Kavafis, il viaggio verso Itaca non è importante per la meta, ma per le esperienze che si accumulano lungo il percorso, quasi un viaggio interiore di crescita e trasformazione. E conclude: “E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso./Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso/già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare” (traduzione di Margherita Dalmàti e Nelo Risi) Francesco Guccini, cantautore e scrittore, nella sua canzone Odysseus (inclusa nell’album Ritratti), riprende il mito di Ulisse con una sensibilità moderna, mescolando elementi della tradizione letteraria con una riflessione personale sull’eroe omerico. Il testo della canzone è ricco di riferimenti colti, come il verso“E i remi mutai in ali al folle volo / Oltre l’umano”, che richiama direttamente Dante (Inferno, XXVI, 125:“de’ remi facemmo ali al folle volo”). Guccini, tuttavia, non si limita a citare il passato, ma lo reinterpreta in chiave contemporanea, trasformando Ulisse in un simbolo della ricerca esistenziale e della lotta contro i propri limiti.

Nella canzone, Guccini descrive Ulisse come un uomo che, nonostante le sue imprese, rimane insoddisfatto e sempre in cerca di nuove sfide. Questo Ulisse è un eroe moderno, che incarna la tensione tra il desiderio di conoscenza e la consapevolezza della propria finitezza. La canzone si conclude con un’immagine malinconica:“E ancora navigo, e ancora non so / Se approderò”, che evoca l’eterna inquietudine dell’uomo contemporaneo, sempre in viaggio ma mai sicuro della meta.

Il mito di Ulisse ha poi avuto una vasta eco non solo nella letteratura italiana, ma anche in quella anglosassone tedesca e più in generale nel Romanticismo europeo. Gli autori romantici, con la loro attenzione al sublime, all’infinito e alla tensione tra umano e divino, hanno spesso trovato in Ulisse un simbolo potente per esplorare temi come il viaggio, la nostalgia, la ribellione e la ricerca di conoscenza. 

Johann Wolfgang von Goethe, uno dei massimi esponenti del Romanticismo tedesco, non ha dedicato un’opera specifica a Ulisse, ma il tema del viaggio (in tedesco Fahrt, apparentato con Erfahrung, esperienza) e della ricerca è centrale in molte delle sue opere. Nel Faust, ad esempio, il protagonista incarna una figura simile a Ulisse: un uomo insoddisfatto che cerca di superare i limiti umani attraverso la conoscenza e l’esperienza. La famosa frase“Im Anfang war die Tat” (“In principio era l’azione”) potrebbe essere letta come un’eco dell’Ulisse dantesco, che trasforma i remi in ali per il “folle volo”. E come ci ricorda Remo Bodei nello splendido libro Scomposizioni (Bologna, Il Mulino, 2016), “Goethe aveva progettato due opere, entrambe non realizzate, sul conflitto tra l’accettazione del limite e l’oltrepassamento di esso, quale errare e nomadismo. Aveva cioè abbozzato un componimento poetico su «la visita fatta dall’Ebreo errante a Spinoza» e un’opera su Ulisse e Nausicaa, che avrebbe dapprima dovuto chiamarsi Ulysses auf Ptäa (1786), poi, alla ripresa del progetto, nel 1798, Nausikaa”, scrivendo un abbozzo, di cui restano circa duecento versi. Inoltre, Goethe ha una visione ambivalente del mito classico: da un lato lo celebra come fonte di bellezza e saggezza, dall’altro lo critica per la sua distanza dalla sensibilità moderna.

Anche Friedrich Hölderlin, poeta tedesco profondamente influenzato dalla cultura greca, ha spesso fatto riferimento al mito di Ulisse nelle sue opere. Nella poesia Archipelagus, ad esempio, il viaggio per mare diventa una metafora della ricerca spirituale e della nostalgia per una patria perduta. Anche in Patmos, Hölderlin riflette sul viaggio e sull’approdo all’isola come metafora della vita stessa.

Il poeta romantico inglese John Keats, nella sua poesia On First Looking into Chapman’s Homer, celebra la scoperta della poesia omerica come un’esperienza sublime e trasformativa. Per Keats, Ulisse rappresenta non solo un eroe, ma anche un simbolo della potenza della letteratura e dell’immaginazione. Inoltre, Keats ha una visione malinconica del mito, trasfusa nella poesia Ode on a Grecian Urn, dove riflette sulla fugacità della vita e sulla bellezza eterna dell’arte.

Anche Percy Bysshe Shelley, nella poesia Hellas, cita Ulisse come simbolo della libertà e della ribellione contro l’oppressione. Il poeta descrive Ulisse come un eroe che, nonostante le avversità, continua a lottare per la propria libertà e per quella del suo popolo. Questa visione ricorda il “folle volo” dantesco, ma con un’accentuazione diversa: per Shelley, Ulisse rappresenta non solo la ribellione contro i limiti imposti dalla natura, ma anche la speranza di un futuro migliore.

Jorge Luis Borges, nella poesia Ars Poetica (inclusa nella raccolta El hacedor, L’artefice), cita Ulisse come simbolo della ricerca esistenziale e della lotta contro i propri limiti. Per Borges, Ulisse rappresenta non solo un eroe, ma anche un simbolo della potenza della letteratura e dell’immaginazione: “Cuentan que Ulises, harto de prodigios,/lloró de amor al divisar su Itaca/verde y humilde. El arte es esa Itaca/de verde eternidad, no de prodigios” (“Narran che Ulisse, stanco di prodigi,/pianse d’amore nello scorgere Itaca/Verde e umile. L’arte è anch’essa un’Itaca/di verde eternità, non di prodigi”, traduzione di Domenico Porzio).

Il poeta russo Iosif Aleksandrovič Brodskij, costretto all’esilio nel 1972 dal regime di Leonid Brežnev, nella poesia Odysseus to Telemachus affronta il tema del viaggio come metafora della crescita personale e della maturazione spirituale. Egli parla dell’esilio come destino e tira le somme dell’esistenza già trascorsa. Per il poeta esule il tempo sopravanza la storia, ridotta a una narrazione di cui gli uomini sentono la necessità per illudersi di comprendere e quindi dominare il tempo. È interessante anche il fatto che Brodskij usi la poesia Itaca di Kavafis, con inversione del significato dei motivi. 

Salvatore Quasimodo, nella poesia Ulisse, affronta il tema del viaggio come metafora della crescita personale e della maturazione spirituale. Anche se non cita direttamente Ulisse, il tema del viaggio come percorso interiore è centrale nella sua opera, e ricorda il mito di Ulisse come simbolo della ricerca di sé stessi.

Il poeta Portoghese Fernando Pessoa, nel poema Mensagem, situa Ulisse in una dimensione storica immaginaria, designandolo come il fondatore del Portogallo. L’autore si connette al mito secondo il quale Odisseo, prima di imbarcarsi nell’oceano Atlantico, si sarebbe fermato sulle coste iberiche, fondando la città di “Ulissipona”, ovvero l’odierna Lisbona. Ma già nella seconda strofa, infatti, attacca con un interessante paradosso: “Questi, che qui approdò, / non esistendo esistette», e chiude altrettanto significativamente con «Non essendo venuto venne / e ci creò”. Ulisse diventa un essere che esiste e non esiste, ma che pure “Senza esistere ci bastò”; un qualcosa di vago, e indefinito che il pubblico deve contemplare non come personaggio fisico, ma come figura incorporea, non esistente. Insomma, deve rappresentare un simbolo, non un eroe in carne e ossa.

Il poeta americano Ezra Pound, nel poema The Cantos, cita Ulisse come simbolo della ricerca esistenziale e della lotta contro i propri limiti. Per Pound, Ulisse rappresenta non solo un eroe, ma anche un simbolo della potenza della letteratura e dell’immaginazione.

Un altro poeta statunitense, Wallace Stevens, nel poema The Sail of Ulysses, cita Ulisse come simbolo della ricerca esistenziale e della lotta contro i propri limiti. Per Stevens, Ulisse rappresenta non solo un eroe, ma anche un simbolo della potenza della letteratura e dell’immaginazione.

Il grande scrittore praghese di lingua tedesca Franz Kafka, nel racconto Das Schweigen der Sirenen (Il silenzio delle sirene, 1931), reinterpreta il mito di Ulisse in chiave moderna, trasformando l’eroe omerico in un personaggio contemporaneo, che incarna i vizi e le virtù dell’uomo moderno. Per certi versi Kafka riprende la poesia Die Insel der Sirenen (L’isola delle sirene, 1918) di Rainer Maria Rilke, che ci presenta l’immagine delle creature senza, apparentemente, citare Ulisse e i compagni. La presenza delle Sirene è qui accostata, per la prima volta, a quella del silenzio che avvolge la scena: è il silenzio che sostituisce il canto, tradizionalmente conferito alle creature mitologiche. Qui l’arma considerata più letale è proprio l’afonia che sorprende Ulisse e il lettore stesso. Bertolt Brecht riprenderà successivamente il testo in una sua personale rielaborazione, Odysseus und die Sirenen (Odisseo e le sirene, 1933), dove al silenzio Brecht preferisce gli improperi che esse proferiscono contro Ulisse. Il testo è, per dichiarazione dello stesso Brecht, una ripresa attualizzante del breve testo kafkiano, del quale vorrebbe rappresentare l’evoluzione inevitabile. Brecht approfondirà questi temi in un’opera minore, Die Heimkehr des Odysseus (Il ritorno di Odisseo,1933), nella quale le sirene lasciano il posto al tema del ritorno e a ciò che questo tema, inevitabilmente, negli anni Trenta del secolo scorso poteva significare.

Lo scrittore ebreo bulgaro di lingua tedesca Elias Canetti, nell’autobiografia La lingua salvata, reinterpreta il mito di Ulisse in chiave moderna, trasformando l’eroe omerico in un personaggio contemporaneo, che incarna i vizi e le virtù dell’uomo del Novecento. Nella riflessione di Canetti, il tema della metamorfosi è  il filo conduttore che evidenzia la capacità dell’eroe di trasformarsi: Ulisse – che ascolta in incognito il racconto delle sue avventure presso i Feaci – simula di essere un mendicante al cospetto dei Proci, diventa  “Nessuno” (Οὖτις) per Polifemo e fa di tutto per diminuire sé stesso: la metamorfosi assume in Canetti la funzione di tecnica di resistenza e di sopravvivenza al potere.

Il mito di Ulisse ha ispirato non solo la letteratura, ma anche la musica, sia classica che contemporanea. Presentiamo una breve rassegna di alcune delle opere musicali più significative che hanno ripreso il mito di Ulisse, dagli autori classici come Monteverdi e Dallapiccola ai musicisti rock e progressive, come Peter Hammill.

Claudio Monteverdi, uno dei padri dell’opera lirica, ha dedicato al mito di Ulisse un’opera intitolata Il ritorno d’Ulisse in patria (1640). L’opera, basata sul libretto di Giacomo Badoaro, racconta il ritorno di Ulisse a Itaca dopo la guerra di Troia e il suo ricongiungimento con Penelope. Monteverdi si concentra sugli aspetti umani e psicologici del mito, trasformando Ulisse in un personaggio profondamente tragico e malinconico.
Gabriel Fauré, compositore francese, ha dedicato alla leggenda di Ulisse un’opera intitolata Pénélope (1913). L’opera, basata su un libretto di René Fauchois, racconta la storia di Penelope, che attende il ritorno di Ulisse mentre respinge i pretendenti: ne scaturisce l’immagine di una donna che lotta per mantenere il controllo sulla sua casa e sul suo destino.

Luigi Dallapiccola, compositore italiano del Novecento, ha dedicato al mito omerico un’opera intitolata Ulisse (1968). L’opera, basata su un libretto dello stesso Dallapiccola, racconta il viaggio di Ulisse attraverso il Mediterraneo e il suo ritorno a Itaca. Dallapiccola si concentra sugli aspetti filosofici e psicologici del mito, trasformando Ulisse in un simbolo della condizione umana, divisa tra il desiderio di conoscenza e la consapevolezza della propria finitezza.

Rolf Riehm, compositore tedesco contemporaneo, ha dedicato al mito di Ulisse un’opera intitolata Odysseus (2013). L’opera, basata su un libretto dello stesso Riehm, racconta il viaggio di Ulisse attraverso il Mediterraneo e il suo ritorno a Itaca: Odisseo è un uomo che cerca di riconciliarsi con il proprio passato e di ritrovare un senso di appartenenza.
Il brano Tales of Brave Ulysses dei Cream di Eric Clapton, contenuto nell’album Disraeli Gears (1967), cita direttamente Ulisse come simbolo dell’avventura e della ribellione. La canzone, con il suo testo poetico e le sue immagini evocative, trasforma Ulisse in un eroe moderno, che incarna i vizi e le virtù dell’uomo contemporaneo.

Nel brano The Siren Song, incluso nell’album The Quiet Zone/The Pleasure Dome (1977), i Van der Graaf Generator, guidati dal poeta e musicista Peter Hammill, esplorano il mito di Ulisse e il suo incontro con le sirene attraverso una lente profondamente introspettiva e psicologica. Il testo, ricco di immagini evocative e metafore, trasforma l’episodio omerico in una riflessione sulla seduzione, la dipendenza e la lotta interiore tra il desiderio di cedere alla tentazione e la volontà di resistere.

Il brano inizia con una serie di immagini contrastanti che evocano il passato e il presente, il dolore e il piacere, la vita e la morte:

“Letters in pencil, some of them as heavy as lead, / as dated as carbon, as black as coal, but burning as red. / Clues faintly stencilled: the message, though leeched, is unbled, / as secret as marble - as young, as old, as living, as dead” (“Lettere a matita, alcune pesanti come il piombo, / datate come il carbone, nere come il carbone, ma ardenti come il rosso. / Indizi debolmente tracciati: il messaggio, anche se decomposto, non è decifrato, / segreto come il marmo - giovane, vecchio, vivo, morto”).

Queste parole introducono il tema della memoria e della sua capacità di persistere, nonostante il tempo e l’oblio. Il riferimento a Ulisse è implicito, ma diventa esplicito più avanti, quando Hammill cita direttamente l’immagine dell’eroe legato all’albero della nave:

“And always that laugh / that comes as though it’s from pain: / though I’m lashed to the mast / still it hammers round my brain” (“E sempre quella risata / che viene come dal dolore: / anche se sono legato all'albero maestro / mi martella ancora il cervello”).

Qui, il canto delle sirene diventa una metafora della tentazione e della dipendenza, che continuano a perseguitare il narratore nonostante i suoi sforzi per resistere. La risata delle sirene, descritta come "impossibly wise" (impossibilmente saggia), rappresenta la consapevolezza dolorosa di essere attirati verso qualcosa di distruttivo, ma irresistibile. Il brano prosegue con una riflessione sulla natura della tentazione e sulla sua capacità di sfidare ogni logica e razionalità:

“So the siren song runs through the ages, / and it courses through my veins like champagne; / and with all the sweet kisses of addiction / it’s calling me to break my bonds again” (“Così il canto delle sirene attraversa i secoli, / e scorre nelle mie vene come champagne; / e con tutti i dolci baci della dipendenza / mi chiama a rompere di nuovo i miei legami”.) Ora il canto delle sirene diventa una metafora universale, che attraversa il tempo e lo spazio, e che si manifesta in forme diverse, dalla dipendenza alla passione, dalla creatività alla distruzione. La canzone si conclude con una domanda angosciata, che riflette la lotta interiore del narratore:

“Oh, when the mast becomes a flagpole, / what becomes of me? / What becomes, oh, what becomes of me?” (“Oh, quando l'albero diventa un pennone, / che ne è di me? / Che cosa diventa, oh, che cosa diventa di me?”).
Questa domanda finale evoca il tema della trasformazione e della perdita di identità, che risuona profondamente nel mito di Ulisse, che deve confrontarsi con i propri demoni interiori e con le conseguenze delle sue azioni.
Un altro superbo album della stagione del rock progressive  Islands dei King Crimson di Robert Fripp (1971), con i testi di Formentera Lady e Islands, scritti dal poeta Peter Sinfield, evoca temi e immagini che possono essere letti in chiave omerica, in particolare in relazione al mito di Ulisse e al suo viaggio. 

Il brano “Formentera Lady” evoca un’atmosfera mediterranea, con immagini di un paesaggio soleggiato e selvaggio, dove il narratore si perde in una riflessione sulla natura e sull’amore. Tuttavia, il riferimento esplicito a Ulisse e a Circe nella strofa centrale trasforma il brano in una meditazione sul potere della seduzione e sulla nostalgia per un passato mitico.

“Here Odysseus charmed for dark circe fell, / Still her perfume lingers still her spell.” (“Qui Ulisse cadde ammaliato dalla bruna Circe ed ancora aleggiano il suo profumo ed il suo incantesimo”).

Questi due versi sono un chiaro riferimento al mito di Ulisse e al suo incontro con Circe, la maga che trasformò i suoi uomini in maiali e lo tenne prigioniero sull’isola di Eea. Nel mito omerico, Ulisse riesce a resistere al potere di Circe grazie all’aiuto di Ermes, ma alla fine si lascia sedurre dalla maga, rimanendo con lei per un anno.

Nel brano dei King Crimson, il riferimento a Circe e al suo “profumo” che ancora “persiste" (lingers) suggerisce che il potere della seduzione e dell’incantesimo non si esaurisce mai completamente. Il narratore, come Ulisse, è affascinato da una figura femminile misteriosa e potente, che rappresenta sia l’amore che il pericolo. La “Formentera Lady” evocata nel titolo diventa una sorta di Circe moderna, che incanta il narratore con il suo canto e la sua danza. Il narratore, come Ulisse, è in un luogo lontano da casa, circondato da un paesaggio esotico e affascinante, ma allo stesso tempo desidera tornare alla sua terra natale. Entra poi la voce soprano Paulina Lucas, quasi a ricordare il canto delle sirene, incontrate da Ulisse dopo aver lasciato l’isola di Circe; i gorgheggi al sassofono di Mel Collins rappresentano lo stato d’animo di Ulisse all’ascolto di quel canto. Anche il brano strumentale seguente, “Sailor’s Tale” (“Il racconto del marinaio”), sembra un minipoema sinfonico, che adombra il successivo incontro con il mostro dalle sette teste, Scilla, durante una procellosa tempesta, finché la devastata nave di Ulisse non si avvia verso il gorgo di Cariddi.

Nel brano “Islands” troviamo invece una meditazione poetica su un’isola immaginaria, descritta come un luogo di pace e bellezza, ma anche di solitudine e fragilità. Il tema dell’isola è centrale nel mito di Ulisse, che durante il suo viaggio incontra numerose isole, ciascuna delle quali rappresenta una sfida o una tentazione.

“Earth, stream and tree encircled by sea / Waves sweep the sand from my island.” (Terra ruscelli ed alberi avvolti dal mare/onde strappano la sabbia dalla mia isola”.

Queste parole evocano l’immagine di un’isola circondata dal mare, che ricorda le tappe del viaggio di Ulisse. Nel mito omerico, le isole sono luoghi di passaggio, dove l’eroe deve affrontare prove e tentazioni, ma anche luoghi di rifugio e riposo.

“Dark harbour quays like fingers of stone / Hungrily reach from my island” (“Scure banchine del porto come dita di pietra/si allungano bramose dalla mia isola”).

Questa immagine dei moli che si protendono verso il mare come “dita di pietra” richiama l’idea di un’isola che cerca di trattenere chi vi approda, proprio come Circe trattenne Ulisse o come Calipso lo tenne prigioniero sull’isola di Ogigia. Nel mito di Ulisse, le isole rappresentano sia il pericolo che la salvezza. In “Islands”, l’isola è un luogo di bellezza e pace, ma anche di solitudine e fragilità, che ricorda la condizione umana di Ulisse, sempre in bilico tra il desiderio di esplorare e la nostalgia per casa. Il brano descrive un’isola come un microcosmo, dove la natura e l’umanità si intrecciano in un equilibrio precario. Questo tema è centrale nel mito di Ulisse, che deve confrontarsi con le forze della natura e con le sue stesse debolezze. Sinfield in questa lirica riprende, quasi rovesciandola, la metafora del grande poeta metafisico John Donne (1572-1631), che tendeva a non considerare l’essere umano come un’isola:

“No man is an island, entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main. If a clod be washed away by the sea, Europe is the less, as well as if a promontory were, as well as if a manor of thy friend’s or of thine own were; any man’s death diminishes me, because I am involved in mankind; and therefore never send to know for whom the bells tolls; it tolls for thee.” and therefore never send to know for whom the bell tolls it tolls for thee”.

“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.” (Devotions Upon Emergent Occasions, Meditation XVII).

In realtà, non dobbiamo pensare, anche secondo Sinfield, che i nostri ego individuali siano come isole nel mare. Come per Donne, quando guardiamo al mondo ed a noi stessi come entità separate. non ci rendiamo conto che siamo tutti collegati dalle correnti sottomarine che erodono le barriere che alziamo per proteggerci (le alte mura, le scogliere di granito, i rovi spinosi).

Il mito di Ulisse, come dimostrano le riprese nella letteratura mondiale e nella musica, è un’inesauribile fonte di ispirazione per artisti di diverse epoche e discipline. Gli autori citati hanno tutti reinterpretato il mito in chiave moderna, trasformando Ulisse in un simbolo della condizione umana, divisa tra il desiderio di conoscenza e la consapevolezza della propria finitezza.

Itaca. Il ritorno

Titolo originale: The Return
Paese di produzione: Italia, Regno Unito
Anno: 2024
Durata: 116 minuti
Genere: drammatico
Regia: Uberto Pasolini
Soggetto: Odissea di Omero
Sceneggiatura: Uberto Pasolini, John Collee, Edward Bond
Produttore: Uberto Pasolini, James Clayton, Roberto Sessa, Konstantinos Kontovrakis
Produttore esecutivo: Ralph Fiennes, Giorgos Karnavas, Torsten Poeck, Andrew Karpen, Kent Sanderson, Nicholas Sandler, Keith Kehoe
Distribuzione in italiano: 01 Distribution
Fotografia: Marius Panduru
Montaggio: David Charap
Musiche: Rachel Portman
Scenografia: Giuliano Pannuti
Costumi: Sergio Ballo

Interpreti e personaggi

Ralph Fiennes: Odisseo
Juliette Binoche: Penelope
Charlie Plummer: Telemaco
Tom Rhys Harries: Pisandro
Marwan Kenzari: Antinoo
Claudio Santamaria: Eumeo
Ayman Al Aboud: Indio
Amir Wilson: Filezio
Francesco Bianchi: Anfimedonte
Nicolas Retrivi: Eleno
Adel Ahmed: Agelaus
Bruno Cassandra: Promaco
Maxim Gallozzi: Dulicheus
Stefano Santomauro: Thoas

 
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