Cinema & Co.
Il sipario si è chiuso per sempre su una delle voci più autentiche del panorama artistico italiano. Con la scomparsa di Antonello Fassari, avvenuta oggi all’età di 72 anni, il mondo del cinema, del teatro e della televisione piange non solo un interprete formidabile, ma un uomo capace di far vibrare corde intime e sincere, celate tra le pieghe dell’ironia e del dolore. Un attore che ha saputo parlare al cuore di un intero Paese, portando in scena la romanità verace, mai stereotipata, sempre tenera e profonda, come un bicchiere di vino versato sul bancone di una vecchia osteria. Nato a Roma il 4 ottobre del 1952, figlio dell’avvocato Osvaldo Fassari e di Adriana Gambardella, Antonello era sangue e voce della Città Eterna. Diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” nel 1975, aveva mosso i suoi primi passi sul palcoscenico, forgiandosi nella fucina teatrale che per decenni ha rappresentato l’anima viva della cultura italiana. Ma la sua vocazione era troppo potente per rimanere circoscritta entro le mura del teatro: Fassari divenne volto e cuore della televisione, del cinema, della comicità, della narrazione popolare più autentica.
Il grande pubblico lo consacra nel 2006 grazie al ruolo dell’oste Cesare Cesaroni, nella fortunata serie televisiva I Cesaroni, in onda fino al 2014. Un personaggio scorbutico e dolcissimo, rozzo e profondo, custode di una sapienza antica fatta di detti e sentenze, come quella che lo rese celebre: «Che amarezza». Più di una battuta, una filosofia. Un sigillo malinconico e ironico che resterà scolpito nella memoria collettiva, come una poesia urbana sussurrata tra i sampietrini di Trastevere. Ma ridurre Antonello Fassari a Cesare sarebbe ingiusto, persino offensivo. In cinquant’anni di carriera, ha attraversato tutti i generi e i registri, lavorando con registi del calibro di Marco Risi (Il muro di gomma), Marco Tullio Giordana (Pasolini, un delitto italiano), Michele Placido (Romanzo Criminale), Stefano Sollima (Suburra) e Carlo Vanzina (Selvaggi). Ha portato in scena personaggi tormentati e complessi, incarnando la fragilità maschile in tutte le sue forme, da quella tenera a quella violenta, da quella buffa a quella struggente. Indimenticabili le sue incursioni nel mondo della comicità televisiva, dai tempi pionieristici di Avanzi, dove vestiva i panni del compagno Antonio – eschimo sulle spalle e borsa di Tolfa in mano – fino a Tunnel, dove la sua romanità esplodeva in tutta la sua potenza espressiva. Sempre con quel sorriso obliquo, quel tono sornione, quell’intelligenza acuta che sapeva trasformare la battuta in una riflessione sul mondo.
Nel 2000 si cimentò anche con la regia, dirigendo "Il segreto del giaguaro", film dal sapore underground con protagonista il rapper Piotta. Un’opera personale e sperimentale, figlia della sua voglia inesauribile di mettersi in gioco, di cercare nuove strade, anche fuori dagli schemi del mainstream. Del resto, non tutti ricordano che nel 1984 fu uno dei primi a sperimentare il linguaggio rap in Italia, scrivendo e interpretando Romadinotte, brano che già allora traduceva il battito metropolitano della Capitale in versi e musica. Nel cuore di Antonello, però, c’è sempre stato un grande amore: la Roma. Tifoso appassionato, nel 2020 ricevette un riconoscimento speciale durante il Premio Sette Colli Romanisti. Per lui, l’AS Roma era più di una squadra: era identità, sangue, appartenenza. Come Roma era più di una città: era casa, madre, complice. Accanto a lui, per lunghi anni, la moglie Maria Fano, sposata nel 1982, e la figlia Flaminia, nata nel 1989. Entrambe schive ai riflettori, hanno scelto la via del riserbo e della discrezione, proteggendo la loro intimità familiare dall’invadenza del mondo dello spettacolo. Una vita privata vissuta lontano dai clamori, fatta di affetti veri e tormenti silenziosi.
Nel 2024, durante una toccante intervista televisiva a La volta buona, Antonello aveva confidato con disarmante sincerità il dolore seguito alla separazione dalla moglie, dopo oltre vent’anni di matrimonio. Parole dense di malinconia, con cui aveva raccontato la sua battaglia contro l’ansia, la depressione e l’angina, un dolore al petto che gli toglieva il respiro. «Sentivo come una carpa dentro, qualcosa che mi mordeva. Ero divorato dalle ansie. Ma le cure e l’affetto delle persone giuste mi hanno salvato», disse con voce rotta e occhi umidi. Fino all’ultimo, Antonello ha lottato. Era atteso sul set della settima stagione de I Cesaroni, intitolata Il ritorno, diretta da Claudio Amendola, collega e fraterno amico di una vita. Ma come ha raccontato lo stesso Amendola, con la voce incrinata dalla commozione, «la malattia bastarda ha avuto il sopravvento. Le sue condizioni sono precipitate nell’ultimo mese. Lo aspettavamo sul set. Per me è un pezzo di vita che se ne va. Sarai per sempre mio fratello». Le testimonianze d’affetto, in queste ore, si moltiplicano come preghiere laiche. Ezio Greggio lo ha ricordato come «collega meraviglioso e persona adorabile». Ludovico Fremont, il Walter dei Cesaroni, gli ha scritto una dedica intrisa di romanità e nostalgia: «Antoné… io te dico na cosa sola… grazie! E comunque, che amarezza!». Maurizio Mattioli ha detto semplicemente: «Mi mancherai». E Verdiana Bixio, produttrice della serie, ha ammesso con voce spezzata: «La notizia della sua morte ci dilania tutti».
Per il pubblico resta un vuoto difficile da colmare, perché in lui convivevano l’attore, il poeta urbano, il giullare malinconico, il filosofo da osteria, il padre tenero, l’amico fedele. La sua voce risuona ancora tra i vicoli di Roma, nei teatri dove ha calcato le tavole, nei set dove ha regalato sorrisi e lacrime. Ma soprattutto, resta nelle frasi che ci ha lasciato, nelle battute che sembravano leggere ma erano profondamente vere, come quella che – ora più che mai – ci appare come un addio tenero e crudele: «Che amarezza». E forse, proprio in questa frase si cela il senso ultimo del suo passaggio: la consapevolezza che la vita, pur bella e luminosa, ha sempre un retrogusto di malinconia. E Antonello Fassari, con la sua arte, ha saputo renderlo dolcissimo.