Cinema & Co.

In viaggio con mio figlio. Una commedia drammatica tra autismo e riconoscimento dell’Altro

di Teodosio Orlando
 
In viaggio con mio figlio. Una commedia drammatica tra autismo e riconoscimento dell’Altro

Il regista Tony Goldwyn, noto in precedenza come attore in vari ruoli di “cattivo” e per aver girato film come A Walk on the Moon - Complice la luna (1999), ci propone un bell’esempio di commedia drammatica con  In viaggio con mio figlio. Commedia drammatica sembra quasi un ossimoro, ma ricalca  una definizione inglese, lingua in cui hanno perfino creato il neologismo dramedy (che potremmo anche tradurre con drammedia). È un genere che riesce a fondere elementi del dramma e della commedia (il sitcom americano, in realtà) con eleganza e una certa dose di ironia. I due generi opposti, ossia il drama (caratterizzato da contenuti seri, personaggi complessi, riprese non sequenziali, giusto amalgama di interni ed esterni) e comedy (incentrata su dispute verbali, dialoghi tesi con affermazioni nette e repliche taglienti, uso frequente delle iperboli) si mescolano, superando anche i limiti temporali ristretti della commedia.

Ci troviamo perciò a che fare con una commedia drammatica familiare che affronta con delicatezza e un pizzico di humour un tema di non indifferente complessità: il rapporto tra un padre in crisi esistenziale e un figlio che sta sprofondando nello spettro autistico (e non a caso il titolo originale è semplicemente Ezra, focalizzato sulla personalità del giovanissimo protagonista).

Il film, che vede protagonisti Bobby Cannavale, William A. Fitzgerald, Rose Byrne e un intenso Robert De Niro, si sviluppa come un road movie dal sapore agrodolce, in cui il viaggio fisico si intreccia con un percorso di crescita interiore.

Max Bernal (interpretato con disinvoltura da Bobby Cannavale) è un comico newyorkese ormai sulla via del tramonto, che tenta di fare i conti con un matrimonio andato progressivamente in pezzi e di assorbire l’inevitabile divorzio, senza troppi danni materiali e psicologici. Si trova così a essere ospite, come i “mammoni” italiani e suo malgrado, del padre Stan (un Robert De Niro al suo apice), uomo dalla scorza dura, ma dotato di una schietta sincerità e apertura alle esigenze degli altri. Il figlio undicenne di Max, Ezra (interpretato dal giovanissimo e bravissimo William A. Fitzgerald), è un bambino brillante e sensibile, con una diagnosi di disturbo dello spettro autistico. Ora, come è noto, il termine autismo (dal greco αὐτός, “stesso”) venne coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler per designare il complesso di patologie psichiche che caratterizzano individui totalmente assorbiti nelle proprie esperienze interiori, fino a perdere ogni autentico interesse per la realtà esterna, gli oggetti materiali e le altre persone. In realtà, il termine ha due usi: uno più generale e uno riferito ai bambini, per i quali si tende a parlare di  autismo infantile precoce. Nel significato più generale, l’autismo presenta i caratteri di una chiusura verso i rapporti comunicativi con gli altri e con il mondo esterno: ne consegue una sorta di ritiro nella propria sfera interiore, egocentrica e dominata dalla propria soggettività. Nel caso dell’autismo infantile precoce, ci troviamo a che fare, invece, con un bambino che non manifesta interesse per il mondo esterno, sulla scorta di pulsioni narcisistiche in cui la libido presenta un investimento sull’Io anziché sugli oggetti, come sosteneva lo psicanalista Bruno Bettelheim. Il bambino autistico diventa presto anaffettivo, mostrando un debole interesse per gli stimoli uditivi e visivi e opponendosi alle manifestazioni d’affetto. Il bambino sembra non gradire la compagnia degli altri, preferendo trascorrere il tempo dedicandosi a rituali comportamentali di tipo ripetitivo. Accade poi, come ha rilevato Howard Gardner, che il bambino autistico denoti uno sviluppo rigoglioso di una singola modalità dell’intelligenza, contrapposta a un insieme di abilità altrimenti piuttosto modesto. Ma nel film l’autismo non è trattato come una “malattia”, bensì come una forma diversa di percezione e relazione con il mondo

Ezra si fa coinvolgere in un incidente scolastico frainteso dagli adulti, con la conseguente proposta dei medici che prevede il ricorso agli psicofarmaci e l’inserimento in una scuola esclusiva per soggetti “con bisogni educativi speciali”. A quel punto Max perde il controllo delle sue azioni: angosciato dalla prospettiva di vedere il figlio imbottito di medicine e allontanato dalla sua quotidianità – fatta di una scolarizzazione difficile ma anche in qualche modo gratificante –, prende una decisione forse affrettata e dettata dal panico: lo “rapisce”, in piena notte, e parte con lui per un viaggio in automobile attraverso gli Stati Uniti.

Questa decisione paterna di fuggire si trasforma progressivamente in un singolare trip on the road: è una sorta di cammino condiviso tra due anime smarrite che, lungo la strada, si imbattono in personaggi imprevedibili e bizzarri. Ma il regista sa alternare sapientemente questi incontri con riflessioni intime e momenti di tensione con la madre di Ezra, Jenna (Rose Byrne), e, naturalmente con il nonno Stan. Alla fine Max e Ezra imparano a conoscersi, a capirsi, e – soprattutto – a compiere quel faticoso processo che si chiama ri-conoscimento: processo che il filosofo tedesco Axel Honneth, allievo di Jürgen Habermas e interprete di Hegel, definisce come il rapporto che il soggetto instaura con un altro soggetto per pervenire alla “coscienza” del suo “Sé"”. Il “riconoscimento” (Anerkennung in tedesco, tradotto in inglese con recognition) è nient’altro che la reciproca limitazione del proprio desiderio egocentrico a vantaggio del rispettivo Altro. Il soggetto che vuole e desidera è in grado di sperimentarsi per la prima volta come tale solo dopo aver fatto l’esperienza di essere amato. Ed è proprio questo il rapporto che si instaura tra padre e figlio, che non si limita a tradurre un atto di volontà o un bisogno, perché diventa il mezzo (sociale) attraverso il quale viene soddisfatto il desiderio di esperire la propria attività trasformatrice di realtà. Il riconoscimento in fondo è un bisogno ontologico, cioè legato al modo stesso in cui un soggetto può percepirsi come attivo nel mondo. Max, all’inizio del film, è un uomo in frantumi: divorzio, fallimento professionale, precarietà identitaria. Non riesce a riconoscersi come padre, né come artista, né come adulto. La società (scuola, medici, tribunali) lo disconosce, e lui stesso si percepisce come passivo.

Ma nel rapporto con Ezra – e in particolare nelle risposte di Ezra alle sue azioni, anche quando sono confuse o errate – Max inizia a scorgere sé stesso. È proprio nel momento in cui Ezra lo rimprovera, o gli dice che ha sbagliato, che Max esce dal narcisismo della “protezione” e comincia a capire che l’Altro non è oggetto del mio amore, ma il soggetto attivo del mio riconoscimento. Solo nel momento in cui l’Altro ci resiste (moralmente, affettivamente), possiamo apprendere davvero la nostra soggettività.

Nella scena conclusiva, in cui Max e Jenna trovano un nuovo equilibrio condiviso, e in cui Ezra assume finalmente una posizione attiva nella sua stessa narrazione, si intravede una trasformazione del legame in un vincolo comunitario. Non c’è ritorno all’ordine, ma semmai l’emergenza di un nuovo ordine relazionale: fragile, imperfetto, ma fondato sulla comprensione della reciproca vulnerabilità.

Una delle qualità più apprezzabili del film è la sua capacità di non fare della condizione autistica il fulcro del racconto, quanto piuttosto di collocarla in uno sfondo complesso e credibile di relazioni familiari, incomprensioni e desideri che rimangono inespressi. Ezra non è mai rappresentato come un “problema” da risolvere, ma come un soggetto pieno, autonomo, dotato di una propria visione del mondo. È Max, piuttosto, a trovarsi in una condizione di fragilità emotiva e disorientamento esistenziale. Sicché, in un curioso ribaltamento, sarà proprio il figlio a fungere da guida silenziosa per il padre, costringendolo a confrontarsi con i propri limiti, con le proprie paure e con la responsabilità profonda dell’essere genitore.

Il film si inserisce peraltro in una lunga tradizione cinematografica che ha provato a raccontare la diversità mentale e comportamentale, spesso però scivolando in stereotipi o formule narrative troppo consolatorie. Tra questi lungometraggi, non possiamo non citare Rain Man di Barry Levinson (1988), il più celebre capostipite del genere, che trasformava l’autismo in una sorta di eccezionalità geniale (che ricorda quella di John Nash in A Beautiful Mind, film del 2001 diretto Ron Howard e interpretato da Russell Crowe): Dustin Hoffman interpretava un personaggio affascinante, ma quasi mistico e inaccessibile, con abilità mnemoniche o matematiche straordinarie ma relazionalmente compromesso. Ezra, invece, è un bambino reale: non ha poteri straordinari, ma emozioni, timori e desideri riconoscibili. Non è il diverso “da compatire” o “ammirare”, ma un bambino da ascoltare.

Anche Forrest Gump di Robert Zemeckis (1994), pur mai esplicitando una diagnosi, presentava un protagonista neurodivergente (Tom Hanks) che attraversava la storia americana grazie a una purezza inconsapevole. Ezra si muove in direzione opposta: non è l’America a cambiare per lui, ma lui (e chi gli sta intorno) a cercare il proprio posto nell’imperfezione del presente.

Tra i film italiani, ci viene in mente Il grande cocomero (1993) di Francesca Archibugi, dove la regista romana aveva mostrato una sensibilità nuova verso l’infanzia neuroatipica, privilegiando lo sguardo dello psichiatra (in particolare di Marco Lombardo Radice, a cui il film dichiaratamente si ispira). Nel film di Goldwyn, invece, sono la soggettività del bambino e il punto di vista familiare a guidare la narrazione. L’autismo non è un mistero clinico da decifrare, ma una forma diversa di abitare il mondo e di relazionarsi.

Uno sguardo sul cast ci porta a valutare positivamente Bobby Cannavale, che offre una delle sue interpretazioni più mature: Max è un personaggio complesso, a tratti sgradevole, ma mai privo di umanità. La sua rabbia è quella di un uomo che ama profondamente suo figlio, ma che non sa come proteggerlo senza distruggere tutto il resto. William A. Fitzgerald, nel ruolo di Ezra, è sorprendente: la sua recitazione asciutta, naturale, evita ogni forma di caricatura e restituisce un personaggio autentico e toccante. Rose Byrne è credibile nel ruolo di una madre lacerata tra il bisogno di stabilità e l’istinto materno, mentre Robert De Niro, pur in un ruolo di sfondo, riesce con pochi tratti a costruire un personaggio credibile, lontano dagli stereotipi del nonno saggio o buffo: tipico modo di interpretare anche sé stessi di un grande attore. Chiude il cerchio un cameo di Whoopi Goldberg, brillante come sempre, nel ruolo dell’agente di Max.

Tony Goldwyn dirige con discrezione, lasciando spazio ai personaggi e alle loro dinamiche. Il ritmo è ben calibrato, con sequenze che alternano leggerezza e introspezione. Il viaggio attraverso l’America, da New York a Los Angeles, diventa metafora di una trasformazione interiore, con paesaggi che riflettono lo stato d’animo dei protagonisti. La fotografia di Daniel Moder accompagna il racconto senza ostentazione, privilegiando colori caldi e naturali. La colonna sonora di Carlos Rafael Rivera sottolinea con delicatezza le emozioni, senza mai appesantirle.

In conclusione, In viaggio con mio figlio non rivoluziona il genere del road movie familiare, né pretende di offrire soluzioni universali. Ma riesce in ciò che conta: raccontare con onestà e calore umano la difficoltà e la bellezza di crescere insieme. Padre e figlio, entrambi “inadeguati” a modo loro, diventano compagni di strada in un mondo che spesso li vuole conformi e silenziosi. Rispetto ai film che lo hanno preceduto, Ezra sceglie di non mitizzare né semplificare, ma di ascoltare. E ci invita a fare lo stesso. È un film che fa ridere, commuove e lascia spazio alla riflessione. E che soprattutto ci ricorda una cosa semplice e preziosa: l’amore non è perfetto, ma può essere sufficiente.

Scheda

Titolo completo: In viaggio con mio figlio

Titolo originale: Ezra

Lingua originale: inglese

Paese di produzione: Stati Uniti d'America

Anno: 2023

Uscita nelle sale in Italia: 24 aprile 2025

Durata:    100 minuti

Genere: commedia, drammatico

Regia: Tony Goldwyn

Sceneggiatura:   Tony Spiridakis

Produttore: Tony Goldwyn, Tony Spiridakis, William Horberg, Jon Kilik

Casa di produzione: Wayfarer Studios, Closer Media

Distribuzione in italiano:BiM Distribuzione

Fotografia: Daniel Moder

Montaggio: Sabine Hoffman

Musiche: Carlos Rafael Rivera

Interpreti e personaggi

Bobby Cannavale: Max Brandel

Robert De Niro: Stan Brandel

Rose Byrne: Jenna

William Fitzgerald: Ezra Brandel

Vera Farmiga: Grace

Whoopi Goldberg: Jane

Rainn Wilson: Nick

Tony Goldwyn: Bruce

Geoffrey Owens: Robert Segal

Alex Plank: dottor Kaplan

Matilda Lawler: Ruby

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