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Il paradosso dei tirocini sottopagati: davvero "non ci sono soldi"?

di Francesco De Nobili
 
Il paradosso dei tirocini sottopagati: davvero 'non ci sono soldi'?

Per molti studenti l’ingresso nel mondo del lavoro passa da una riga sul CV che si conosce bene: “Tirocinio curriculare/extracurriculare, 3/6 mesi”. Quello che il CV non racconta sono gli altri dettagli: indennità simbolica (quando c’è), orari da full time, costo della vita completamente sulle nostre spalle. Eppure, quasi tutti, a un certo punto, si sono detti: “Stringo i denti adesso…solo per 6 mesi, poi arriverà il “bonus”, la conferma, il contratto…”

Ma è davvero inevitabile accettare mesi sottopagati per sperare nella “vera” opportunità dopo? E soprattutto: sono credibile le ragioni secondo le quali le azienda “non hanno margini” per pagare meglio i tirocinanti? 

O quali sono le ragioni sottostanti di tali realtà?

Guardiamo alla realtà quotidiana di uno studente o neolaureato in una grande città italiana. Affitto di una stanza, trasporti, cibo, magari qualche libro e doveroso svago e passino. Difficile scendere al di sotto dei 700-800 euro al mese, anzi, spesso si supera abbondantemente la soglia dei 1.000.

Ora confrontiamo questi numeri con le indennità/rimborso spese tipiche: 300–500 con picchi di 800 euro al mese per un tirocinio extracurriculare…zero euro per molti curriculari. Anche dove le Regioni hanno alzato i minimi, nella pratica rimaniamo lontani da una cifra che permetta a uno studente fuori sede di reggere sei mesi senza aiuti familiari.

Il risultato è che le opportunità migliori diventano di fatto accessibili soprattutto a chi può permettersi di lavorare quasi gratis. Gli altri, semplicemente, rinunciano o accettano percorsi “al ribasso”, con meno prospettive. Il mercato del lavoro, che spesso si lamenta di non trovare “talenti”, in realtà li filtra in base al portafoglio, non alle competenze.

Ogni anno in Italia si attivano centinaia di migliaia di tirocini, una parte consistente dei quali non prevede alcuna retribuzione. Molti altri garantiscono solo indennità minime. Se traduciamo tutto questo in valore economico, si parla di un’enorme mole di lavoro svolto a costi molto inferiori a quelli del normale lavoro subordinato, sempre pur trattandosi di un rapporto non contrattuale di tipo lavorativo.

Parliamo di mansioni che non sono solo “shadowing” osservativo, ma anche di vere e proprie attività operative: inserimento dati, analisi preliminari, supporto a progetti, attività commerciali, gestione social e piccole responsabilità amministrative. Tutte funzioni che, in assenza di tirocinanti, richiederebbero personale pagato a pieno titolo.

In pratica, sembrerebbe che una parte del sistema produttivo ha incorporato il tirocinio come strumento strutturale di riduzione del costo del lavoro. Non ovunque, non sempre, non da tutti, ma abbastanza spesso da rendere la questione sistemica e dunque non episodica o occasionale.

Ma allora le aziende o gli studi, davvero non possono pagare di più?

A livello macro, l’Italia non è un paese privo di profitti. Negli ultimi anni la quota di reddito che va alle imprese, sotto forma di utili e redditi misti, è rimasta significativa. Le esportazioni tengono e molti settori registrano margini importanti.

Se guardiamo all’interno di una grande azienda, il costo di alzare l’indennità di uno stagista da 300 a 800-1.000 euro al mese è quasi invisibile sul bilancio complessivo (anche perché solo temporaneo e sempre improntato all’assunzione dello stesso). Anche nella casistica di una PMI, spesso si tratterebbe di cifre assolute contenute. Eppure, la resistenza è forte, quasi culturale: lo stagista viene percepito con diffidenza e ancora come “in formazione” e dunque come figura che “non si è ancora meritata” una retribuzione piena.

Inoltre, impera una narrazione dominante che è quella del sacrificio iniziale: prima accetti di guadagnare poco o niente, poi arriverà il contratto vero, il bonus e la carriera. È un racconto che molti di noi hanno interiorizzato e che spesso giustifica l’ennesimo stage in fila (che sia chiaro, la ragione potrebbe essere anche da collegare alle competenze del candidato).

Il problema è che questo patto non è scritto da nessuna parte. L’azienda non ha un obbligo reale di assumere, e nemmeno di trasformare il tirocinio in un percorso di crescita strutturato. Così, non di rado, lo schema si ripete: dopo sei mesi di sacrificio arriva un altro stagista, e poi un altro, mentre chi è passato prima deve ricominciare da capo in un'altra azienda.

Qui la domanda da porci come generazione è semplice e scomoda: siamo davvero disposti a fondare la nostra identità professionale su un modello che scarica su di noi il rischio d’ingresso nel mercato del lavoro, mentre profitti e benefici rimangono concentrati altrove?

La soluzione non è abolire lo stage in quanto tale. Un tirocinio ben progettato, con tutoraggio reale, obiettivi formativi chiari e un ambiente aperto al confronto è una palestra preziosa, oltre che una forma di tutela per l’azienda per evitare di assumere figure potenzialmente dannose per la stessa. La vera riforma sta nel cambiare i presupposti. Alcuni spunti potrebbero essere:

- Se lo stagista contribuisce in modo reale al lavoro dell’azienda, va pagato in modo coerente con il costo della vita di dove si trova lo stesso. Le indennità minime fissate per legge dovrebbero guardare a questo parametro, non a una cifra simbolica.

- Che il “success bonus” sia un extra per chi viene confermato o raggiunge obiettivi concordati, non se diventa l’unica speranza di tirare su una cifra decente a fine percorso.

- Le imprese potrebbero dichiarare quanti tirocinanti ospitano, quanto li pagano, quanti vengono poi assunti. Sarebbe un indicatore concreto di responsabilità sociale, molto più dei generici richiami ai “giovani talenti” nelle campagne di employer branding.

- Gli atenei hanno più potere di quanto pensiamo: potrebbero rifiutare convenzioni con enti che offrono solo stage non retribuiti o sotto mediana, privilegiando invece realtà che investono davvero nella formazione e nella crescita dei tirocinanti.


Ma allora cosa potremmo fare noi come “Giovani Menti”? Ovviamente non abbiamo la pretesa di riscrivere da soli le regole del mercato del lavoro, ma possiamo comunque iniziare da alcune scelte individuali e collettive:

- Informarci sui nostri diritti, sapere cosa prevedono le linee guida regionali e nazionali.

- Fare domande scomode in fase di colloquio: qual è l’indennità? Quali sono gli orari? Esiste una reale possibilità di inserimento?

- Dare visibilità alle aziende che trattano bene i tirocinanti, anche semplicemente parlandone tra noi, sui social, nelle associazioni studentesche.

- Sostenere le iniziative che provano a trasformare il tema degli stage in una battaglia concreta, non solo in uno sfogo al bar.


In fondo, il cuore della questione sta qui: smettere di considerare “normale” ciò che normale non è. In un’economia che chiede competenze sempre più sofisticate, trattare il lavoro dei giovani come una risorsa gratuita o quasi non è solo ingiusto: è miope.

Se questo è davvero il tempo delle “nuove prospettive”, allora una delle più urgenti è questa di cui ho parlato. Inoltre, sarà sempre giusto rispettare chi ha più esperienza e anzianità, ma non dobbiamo dimenticare che noi siamo il futuro e che, un giorno, saremo noi al loro posto. 

Mi auguro, che sapremo fare meglio di quanto loro abbiano fatto con chi è venuto dopo di loro, e che noi saremo capaci di voltarci indietro per tendere la mano, accogliere e sostenere chi un giorno sarà chiamato a prendere il nostro posto.

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