Cinema & Co.
Una donna con un cappotto color terra di Siena bruciata mette le mani in tasca e sorride, mentre è in piedi accanto a un uomo con una camicia a quadri che mostra dei documenti. Si trovano all’interno di una casa. È l’incipit del nuovo film di Robert Zemeckis, il regista che ha inciso in modo significativo nella storia del cinema degli ultimi decenni con opere come Forrest Gump e Ritorno al futuro. Ora torna a esplorare il tempo e la memoria con Here, un film ispirato alla graphic novel omonima di Richard McGuire. Con un cast guidato da Tom Hanks e Robin Wright (che furono i co-protagonisti di Forrest Gump), il film si pone come una riflessione poetica sulla vita e sulle connessioni che definiscono l’esperienza umana. E forse non solo umana. Il film, almeno in via ipotetica, si estende su un arco di eoni e fissa la macchina da presa in un unico punto fino ad abbracciare quasi tre miliardi di anni. L’obiettivo è statico; l’arco di tempo, epico. In meno di un ettaro di New Jersey si avvicendano meteore, un’era glaciale e i dinosauri. Tra il Pleistocene e Colombo, un cervo passa in punta di piedi. L’idea, semplice e geniale, che sta alla sua base è la seguente: nel racconto, il tempo scorre in modo lineare, mentre è lo spazio a modificarsi. O meglio: potremmo dire che è tutto lineare, sia il tempo sia lo spazio, ma è l’autore che li parcellizza e li ricompone a suo piacimento o per suo diletto.
Zemeckis ha tentato una singolare impresa: quella di trasportare sulla pellicola cinematografica alcuni aspetti della graphic novel, che sembravano peculiari esclusivamente di questo medium. Nel fumetto la modalità con cui vengono raccontate le azioni nel tempo è soggetta alla scansione a vignette. Ogni vignetta congela il tempo in singoli istanti. Sembra di essere immersi nel terzo dei paradossi del filosofo greco Zenone d’Elea, dove la freccia rimane immobile perché a ogni istante occupa un solo segmento di spazio, pari alla sua lunghezza. Il dardo, che secondo l’opinione corrente, si muoverebbe lungo una traiettoria, è in realtà sempre fermo. Infatti, in ciascuno degli istanti in cui possiamo dividere il tempo impiegato nel volo, la freccia occupa uno spazio determinato: ma ciò che occupa uno spazio “uguale a sé stesso” è in quel momento in riposo; dunque, la freccia, che è in riposo in ogni istante, lo è anche nella totalità di essi. Il movimento è impossibile, sia in uno spazio continuo (ossia infinitamente divisibile) sia in uno discreto (divisibile in parti finite distinte). In realtà, a essere diviso non è solo lo spazio, ma anche il tempo: il secondo è analizzato in istanti, il primo in luoghi.
Tra essi c'è una corrispondenza biunivoca: il paradosso deriva dal fatto che a ogni istante corrisponda un luogo (e viceversa), e che non ci possa essere perciò un momento in cui avvenga il passaggio da un punto all'altro. Del resto, come può una somma di istanti in cui un corpo è fermo dare come risultato un movimento? Parimenti, una somma di punti che non hanno grandezza non può dare come risultato una grandezza. Come una somma di zeri non darà mai come risultato un numero diverso da zero.
Nel fumetto, la stessa azione può essere raccontata illustrando ogni fase che la compone, oppure può essere narrata per omissione, mostrandone le conseguenze nella vignetta successiva. In ogni caso, il fumetto congela il tempo per meglio raccontarne il flusso. Nella graphic novel di Richard McGuire queste regole vengono un po’ scardinate perché il processo naturale dello scorrere del tempo in un fumetto viene invertito: vengono sovrapposte azioni (o parti di esse) diverse in uno scenario fisso, che però è soggetto anch’esso alla mutabilità temporale. L’immobilità dello scenario si basa sul principio secondo cui, nella nostra realtà, noi viviamo unicamente nel momento presente, quello che il filosofo americano William James chiamava specious present, ossia «il prototipo di tutti i tempi concepiti, della cui breve durata siamo immediatamente e incessantemente coscienti» («But the original paragon and prototype of all conceived times is the specious present, the short duration of which we are immediately and incessantly sensible», The Perception of Time, 1886). Del resto, come ha messo in luce il filosofo francese Gilles Deleuze richiamandosi al suo predecessore Henri Bergson, autore del libro L’évolution créatrice (1907), nel cinema troviamo applicato una sorta di paradosso per cui «non soltanto l’istante è una sezione immobile del movimento, ma il movimento è una sezione mobile della durata» (L'image-mouvement, 1983). Ricordare il passato e immaginare il futuro sono decorsi coscienziali che possono accadere anch’essi solo nel momento presente.
Il problema, che sia nella graphic novel sia nel film appare evidente, è che per noi è pressoché impossibile vivere come se non fossimo eterni: tendiamo a vivere nell’illusione della nostra immortalità, che viene normalmente confutata, però, da malattie e sofferenze. Questa illusione, con l'angoscia collegata al nostro normale concetto di morte, genera acuti dolori che condizionano in modo inconscio la nostra vita, come Sigmund Freud e altri indagatori della psiche sapevano benissimo; infiniti dolori che non siamo in grado spesso di affrontare e che ci affliggono in modo terribile. Il film riesce a trasporre mirabilmente il senso della graphic novel. L’intero film si svolge in un unico ambiente, un angolo di mondo che diventa testimone di secoli di storia. Dall’era dei dinosauri fino al 2024, la casa è la vera protagonista: attraversa il tempo senza subire metamorfosi radicali, accogliendo vite diverse e storie intrecciate. Il punto di vista fisso della telecamera compensa il congelamento del tempo prodotto dalle vignette nell’opera originale, conferendo al film un’aura teatrale. Lo spazio dell’abitazione sembra un palcoscenico sul quale il tempo scorre e si sovrappone. La scenografia, curata da Ashley Lamont, evolve in sintonia con le epoche e i personaggi, regalando un’esperienza visiva stratificata e ricca di dettagli.
Zemeckis oltrepassa i confini della tecnologia cinematografica con un uso innovativo del de-aging (de-invecchiamento) digitale, che consente agli attori di interpretare i propri personaggi in diverse fasi della vita (di solito è una tecnica di effetti visivi utilizzata per far sembrare più giovane un attore o un’attrice, soprattutto per le scene di flashback, ma qui viene usata in modo diffuso). Tuttavia, il regista va oltre il semplice trucco visivo, concentrandosi anche sul linguaggio del corpo e sulle sfumature emotive che cambiano con l’età. Il risultato è un’interpretazione che risulta autentica, nonostante il supporto tecnologico, grazie alla profondità e alla sensibilità di Hanks e Wright. Il de-aging risulta un po’ stridente solo quando dobbiamo sentire la voce di Hanks, 68 anni, uscire dalla bocca di quello che dovrebbe essere un diciottenne.
Al centro della narrazione troviamo Richard e Margaret Young, una coppia che affronta le gioie e i dolori della vita familiare.
La loro storia si intreccia con quelle delle generazioni precedenti e successive, mostrando come le esperienze si ripetano e si influenzino a vicenda: la ciclicità della storia locale riflette quella della storia del mondo. Il regista infatti segue la coppia attraverso i decenni, dall’adolescenza agli ultimi giorni, come parte di un insieme di personaggi che hanno vissuto nello stesso spazio lungo il corso del tempo. Per lo più, però, stiamo fissando due case. La prima è stata costruita prima della Rivoluzione Americana e appartiene a William Franklin (Daniel Betts), un lealista britannico che definisce il padre Benjamin Franklin (Keith Bartlett) un terrorista. Sicura del suo posto nella storia, la dimora coloniale si impone sulla seconda casa, la casa minore, che nessuno andrebbe mai a visitare se non vuole abitarvi. Ma è questa umile dimora la protagonista. Intorno al 1900, è come se le pareti della casa venissero costruite intorno alla macchina da presa; a sua volta, il film si costruisce intorno agli avvenimenti mondani che si svolgono al suo interno. A metà strada tra il divano e la cucina, assistiamo a un secolo e più di vacanze, giorni di ozio, baci e litigi. Niente che valga una targa commemorativa. È un paradossale tributo alla banalità.
Il lavoro di Zemeckis è supportato dalla fotografia di Don Burgess, che bilancia luce e ombra per creare un’atmosfera intima e riflessiva. La colonna sonora di Alan Silvestri aggiunge un ulteriore livello emotivo, accentuando i momenti di introspezione e connessione tra i personaggi. Le scelte tecniche, come l’uso di due set identici per facilitare i cambi di scena, dimostrano l’attenzione maniacale del regista per i dettagli. Tuttavia, non ci ha convinto particolarmente la scelta di mantenere una narrazione frammentata e di affidarsi fortemente alla tecnologia digitale, benché sia sicuramente un esperimento coraggioso nel panorama cinematografico: alla fine il film celebra la bellezza e la fragilità della vita umana. Peraltro, Zemeckis è un regista che sa bene come manipolare il pubblico che consuma film. Ha realizzato Ritorno al futuro, La morte diventa donna, Romancing the Stone, Cast Away e What Lies Beneath: tutti film in cui ha evocato un tipo di magia cinematografica che apre alla trascendenza in modo davvero inconsueto. In quest’ultimo film, l’inconsueto è dato da quella che sembra un’installazione museale incrociata con una pubblicità di una compagnia immobiliare della durata di 100 minuti. Ci sembra di essere intrappolati nello stesso punto fisso mentre fluttua avanti e indietro nel tempo, dai dinosauri fino al Covid: è quasi un sitcom con effetti speciali surreali.
Zemeckis ed Eric Roth (il suo co-sceneggiatore, premio Oscar per Forrest Gump) ci guidano attraverso la storia raccontata in frammenti brevissimi. Abbiamo molteplici filoni che seguono il corteggiamento di un nativo americano, il figlio illegittimo di Benjamin Franklin, William, durante la guerra, un ambizioso pilota e la sua famiglia preoccupata, l’inventore della poltrona La-Z-Boy e sua moglie pin-up, un veterano della seconda guerra mondiale che mette su famiglia, suo figlio che ne mette su una propria e, infine, una famiglia nera che affronta l’ingiustizia razziale e una pandemia. È proprio la lunghissima scena della famiglia nera a risultare piuttosto anonima: quando il padre spiega al figlio come sopravvivere a un fermo di polizia ci troviamo di fronte a un gesto vuoto che non significa nulla visto che non conosciamo nemmeno i loro nomi.
Quel poco che il film ha da dire sulla vita può essere riassunto da una serie di sentenze che ricordano le calamite da frigorifero o i cartigli dei Baci Perugina: “il tempo vola, sii fedele a te stesso, se non provi mai non lo saprai mai”. Forse Zemeckis mira proprio a mostrarci che il mondo è ed è sempre stato monotono e vuoto. Il suo trucco di rimanere nello stesso identico angolo fa sì che il film sembri privo di ariosità e venga sempre raccontato a una fredda distanza: un’incongruenza per un film pieno di un sentimentalismo così semplice e apparentemente spontaneo.
Forse quest’incongruenza si spiega con il fatto che ai momenti sentimentali, e anche a quelli potenzialmente profondi, non viene dato abbastanza spazio per scene dal respiro profondo, mentre il film passa rapidamente da un episodio all’altro e da un periodo all’altro senza pensare alla fluidità e alla coesione: c’è un senso di emozione forzata in tutto il film. Si vuole che proviamo qualcosa mentre guardiamo questi personaggi un po’ anonimi vivere le loro vite in una casa che non significa nulla per noi, senza che venga fatto il lavoro necessario per portarci lì. Ci sono anche troppi personaggi e siamo sopraffatti dalla necessità di seguire ognuno di loro fino alla fine. I personaggi muoiono (dentro e fuori dallo schermo) in vari punti del film e le angolazioni statiche di Zemeckis ci chiedono disperatamente di commuoverci, di capire che cosa stanno subendo queste persone e di relazionarci con loro in qualche modo.
I volti dei due personaggi principali, inquietantemente filtrati con la tecnologia digitale, attirano l’attenzione, soprattutto nel caso di Richard, un alcolista, che si ispessisce in corrispondenza delle guance. Gli effetti visivi sono stati realizzati in collaborazione con la società di intelligenza artificiale Metaphysic (sic!), che si è classificata quarta nel corso dell’“America’s Got Talent” del 2022, con il suo Elvis canoro sintetico. Lo sforzo di invecchiare Hanks e Wright, dal liceo alla pensione, ci ricorda che Richard e Margaret rappresentano modelli, non personalità, liberandoli dalla pressione di dover sostenere una narrazione continua. In definitiva, con la sua combinazione di storytelling innovativo e tecnologia avanzata, Zemeckis offre una riflessione sull’amore, sulla perdita e sul significato del tempo. Nonostante i suoi difetti, il film è un’esperienza cinematografica notevole, capace di far riflettere e commuovere.
Titolo completo:
Here
Regia: Robert Zemeckis
Sceneggiatura: Eric Roth, Robert Zemeckis
Basato sulla graphic novel Here di Richard McGuire
Prodotto da: Robert Zemeckis, Jack Rapke, Derek Hogue, Bill Block
Interpreti:
Tom Hanks
Robin Wright
Paul Bettany
Kelly Reilly
Musica: Alan Silvestri
Società di produzione: Miramax, ImageMovers
Durata: 104 minuti
Paese: Stati Uniti
Lingua: inglese
Distribuzione: Eagle Pictures
Uscita al cinema 9 gennaio 2025