Cultura

“Grand Tour” di Miguel Gomes. Un film di viaggio, dove lo spazio fisico diventa spazio dell’anima

di Teodosio Orlando
 
Con Grand Tour, vincitore del premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 2024, il regista portoghese Miguel Gomes (noto soprattutto per il lungometraggio Le mille e una notte - Arabian Nights [in originale: As Mil e uma Noites], diviso in tre parti) ritorna alla grande con un’opera che spazia tra diversi generi e registri. Conferma così il suo talento visionario, sovrapponendo una singolare storia d’amore e fuga, ambientata nel 1917-18, a un viaggio cinematografico che ripercorre l’Asia contemporanea e l’immaginario storico. Gli spettatori vivono un’esperienza unica, passando per ambienti ed epoche diversamente stratificati, e dal colore al bianco e nero, in una pellicola che è al contempo diario di viaggio, riflessione sul colonialismo e omaggio all’immaginazione. La struttura narrativa e visiva è sospesa tra il reportage e la finzione, tra il passato e il presente, tra il reale e il poetico.

Lo stesso titolo, evocativo delle peregrinazioni dei giovani aristocratici europei del XIX secolo, diviene qui metafora di un’esplorazione del tempo e dello spazio. Il film alterna tre filoni narrativi principali: il viaggio del protagonista nel sud-est asiatico del 1917; le riprese documentaristiche realizzate dallo stesso Gomes nel 2020, in piena pandemia da covid 19, con una macchina da presa in 16mm; e una riflessione meta-narrativa che gioca con inserti marionettistici e intermezzi stilizzati. Le immagini, girate tra Myanmar, Giappone, Cina e altre località, sono un tributo alla materialità del cinema, rese ancor più potenti dall’uso del bianco e nero. La fotografia – curata da un trio di eccellenze, tra cui Sayombhu Mukdeeprom – richiama un’estetica hollywoodiana anni Quaranta, ma dialoga con la frammentazione e il dinamismo del reportage moderno.

La vicenda ruota intorno a Edward Abbott (Gonçalo Waddington, attore noto in Portogallo per aver interpretato Capitão Falcão, un supereroe fascistoide in un film satirico ambientato durante la dittatura di Salazar), un funzionario coloniale britannico codardo, che si trova a vivere nella Birmania coloniale durante la prima guerra mondiale. Edward attende con apparente trepidazione l'arrivo della nave da Londra, sulla quale si trova la fidanzata Molly (Crista Alfaiate, perfettamente in sintonia con il personaggio), con cui ha un legame sentimentale da ormai sette anni: ma, in preda al panico, decide di abbandonarla il giorno fissato per il matrimonio. A quel punto fugge a Singapore, dove si imbatte nel bar dell'hotel Raffles in un cugino di Molly, uomo squallido e scorbutico, a cui lascia credere che il suo comportamento straordinario e furtivo abbia a che fare con lo spionaggio.

Tuttavia, la determinata Molly decide di stare sulle sue tracce attraverso l’Asia orientale, trasformando la narrazione in un gioco di inseguimenti, fraintendimenti e incontri mancati. La dinamica tra i due personaggi, ribaltando i ruoli tradizionali del corteggiamento, richiama la brillantezza delle screwball comedies degli anni ’30 e ’40, arricchendosi di una dimensione emotiva più profonda. Infatti, le screwball comedies (letteralmente commedie svitate o commedie ad effetto) sono film di situazione, di solito incentrati sulla “guerra dei sessi”, con un incontro/scontro tra due persone che prima sono in contrapposizione (anche per la differenza di classe), ma poi finiscono per innamorarsi, dopo aver vissuto esperienze spesso bizzarre e paradossali, con  scambi di persona e travestimenti.

Spesso abbiamo a che fare con coppie sposate che si dividono e si ritrovano. Ma in questo film la commedia si trasforma lentamente in un dramma, con tinte che, nel personaggio maschile, potrebbero richiamare alla lontana il Lord Jim di Joseph Conrad. Ma rispetto ai film e ai romanzi ispirati alle storie del grande scrittore polacco di lingua inglese, Grand Tour non rivela un’autentica intensità drammatica, perché si muove con agilità tra la commedia romantica e il melodramma, esplorando i sentimenti dei protagonisti attraverso una navigazione che è soprattutto interiore. Edward e Molly non percorrono solo terre lontane, ma affrontano anche i territori sconosciuti delle proprie paure, desideri e contraddizioni.

Questa duplicità si riflette nella struttura narrativa, dove l’ironia delle interazioni iniziali lascia spazio a un’indagine più complessa dei legami umani. Vivendo come un vagabondo, Edward si reca a Bangkok, Saigon, Manila e Osaka, da dove viene espulso dalle autorità giapponesi per il suo sospetto legame con i servizi segreti della marina statunitense. Poi va a Shanghai, Chongqing e in Tibet, dove vede i panda sugli alberi e incontra un console britannico dipendente dall'oppio che riflette sull’incipiente fine dell'impero di Sua Maestà, osservando inoltre che gli occidentali non capiranno mai la mente orientale. Ma la formidabile Molly è sulle sue tracce e non si lascia scoraggiare nella sua determinazione, nonostante una certa predisposizione a svenire in pubblico che qualcuno potrebbe scambiare per epilessia. 

Gomes costruisce Grand Tour come un mosaico, alternando sequenze girate in esterni durante un autentico viaggio in Asia con scene ricostruite nei teatri di posa di Lisbona e Roma. Questa dualità amplifica il fascino del film, trasportando lo spettatore in un’Asia immaginaria che si sovrappone alla geografia reale. Le immagini contemporanee, con la loro vivacità documentaristica, dialogano con un passato ricostruito con cura estetica, creando un ponte tra due mondi apparentemente separati.

Lo stesso Gomes descrive Grand Tour come un film che celebra il cinema stesso: un’arte capace di unire epoche, luoghi e linguaggi. In questa opera, la fuga di Edward e l’inseguimento di Molly diventano una metafora del potere del cinema di colmare distanze e trasformare la realtà in immaginazione. Tuttavia, questo elogio alla settima arte si manifesta attraverso un ritmo lento e un’estetica rarefatta, più adatta a spettatori predisposti alla contemplazione che a chi cerca la meraviglia visiva di un grande spettacolo.

Senza dubbio, per uno spettatore che sappia fruirlo fino in fondo, Grand Tour non è solo un film, ma un’esperienza sensoriale e intellettuale che ci invita a riflettere sulle connessioni tra spazio, tempo e sentimento. Con la sua regia innovativa e il racconto stratificato, Miguel Gomes offre un’opera che è al tempo stesso un omaggio al viaggio e al potere trasformativo del cinema. Va però detto che il film non riesce a essere spettacolare nel senso tradizionale del termine, scegliendo invece di concentrarsi su un’estetica intimista e riflessiva, che potrebbe non soddisfare chi cerca un intrattenimento visivo dove le azioni si alternano ai momenti in cui più risalta la psicologia dei personaggi. L’approccio, volutamente contenuto, si concentra più sul significato che sullo spettacolo, con il rischio di lasciare una parte del pubblico insoddisfatta. 

Una delle intuizioni più brillanti di Gomes è l’uso delle riprese documentaristiche come “materiale di repertorio al contrario, perché incorporate in una trama ambientata cent’anni prima. Questo procedimento non solo mette in discussione la linearità temporale, ma trasforma il film in una vera macchina del tempo, dove presente e passato si fondono per interrogare la nostra percezione della storia.
I due protagonisti, Edward e Molly, incarnano due archetipi: da un lato, la vigliaccheria maschile, dall’altro, l’autodeterminazione femminile. Le loro peregrinazioni si caricano di significati allegorici, andando oltre la rappresentazione di genere per sfociare in un’implicita critica al colonialismo e alle sue ombre persistenti. Certo, Gomes non si preoccupa di compiacere il pubblico, bensì lo sfida, proponendo un cinema che richiede attenzione, pazienza e partecipazione attiva. Anche la scelta del bianco e nero e della recitazione in portoghese e, a tratti, in alcune lingue orientali, non sono certo particolarmente invitanti. La voce fuori campo è nelle varie lingue di ciascuno dei luoghi in cui è ambientata la storia e, in linea con l'approccio docu-realista di Gomes, il racconto è intervallato da descrizioni delle città moderne in cui ogni scena si svolge. A tratti sembra che queste scene documentarie siano il punto centrale del film e che la storia dovrebbe rimanere sullo sfondo. Sono in gran parte a colori, mentre la storia è in bianco e nero: ma questa non è una regola ferrea.

Del resto, il film è solo apparentemente realistico, perché gli scenari sono spesso più devoti alla dimensione onirica che alla realtà materiale. Gomes ci invita a vedere, più che a capire; a lasciarci trasportare dalla bellezza delle immagini, più che a cercare una narrazione lineare, con l’ambizione, non sempre riuscita, di creare un’esperienza estetica e filosofica che resterà impressa nella memoria dello spettatore più coraggioso.


Scheda del Film

Grand Tour

Lingua originale: portoghese
Paese di produzione: Portogallo, Italia, Francia
Anno: 2024
Durata: 129 minuti
Dati tecnici: B/N e a colori
rapporto: 2,39:1
Genere: drammatico
Regia: Miguel Gomes
Sceneggiatura: Mariana Ricardo, Telmo Churro, Maureen Fazendeiro, Miguel Gomes
Produttore: Filipa Reis
Produttore esecutivo: João Miller Guerra
Casa di produzione: Uma Pedra no Sapato, Vivo Film, Shellac Sud, Cinéma Defacto
Distribuzione in italiano: Lucky Red
Fotografia: Rui Poças, Sayombhu Mukdeeprom, Gui Liang

Interpreti e personaggi

Gonçalo Waddington: Edward
Crista Alfaiate: Molly
Cláudio da Silva: Timothy Sanders
Lang-Khê Tran: Ngoc
João Pedro Vaz: il reverendo Carpenter
Teresa Madruga: Espia 

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