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After the Hunt - Dopo la caccia: la morale come estetica, il pensiero come veleno
di Redazione

Luca Guadagnino ritorna alla regia con After the Hunt - Dopo la caccia, un thriller filosofico che si muove come un bisturi dentro la carne viva dell’etica contemporanea. È un film che non risolve, ma espone, che non giudica, ma mostra la crisi del giudizio. In cattedra, una Julia Roberts magnetica e fragile, nei panni di Alma Olsson, professoressa di filosofia a Yale, donna di pensiero e di desiderio, travolta da una vicenda che la costringe a scegliere tra verità, potere e memoria.
Guadagnino, con la sceneggiatura di Nora Garrett, costruisce un campus movie intellettuale e teso, dove la correttezza politica si fa teatro dell’ipocrisia e l’idea di giustizia diventa performance. Quando Maggie (una brillante Ayo Edebiri), studentessa modello e figlia di una famiglia influente, accusa di molestie il professor Hank (Andrew Garfield), contendente alla stessa cattedra di Alma, tutto si incrina, la verità smette di essere un fatto e diventa un punto di vista.
Il regista di "Call Me by Your Name" e "Bones and All" mette in scena un labirinto morale fatto di dialoghi serrati, citazioni da Kierkegaard e Schopenhauer, e richiami ad Agamben, Locke e Nietzsche. Non c’è sintesi, solo un continuo scontro di tesi e antitesi, come se il pensiero stesso si ribellasse alla possibilità di una conclusione. È un film “brechtiano”, nel senso più alto. Ogni personaggio è chiamato a guardarsi dall’esterno, a recitare la propria parte etica in un mondo dove la coerenza è un lusso e l’ambizione accademica un vizio travestito da virtù.
Julia Roberts offre una delle sue interpretazioni più complesse: distante, carismatica, tormentata, incapace di amare se non attraverso la ragione. Il suo personaggio, “Alma mater” nel senso più crudele del termine, nutre solo con le idee, mai con il cuore. Andrew Garfield, invece, incarna un maschile sospeso tra arroganza e vulnerabilità, simbolo di un mondo che non sa più se difendersi o scusarsi.
La fotografia di Malik Hassan Sayeed trasforma ogni aula e corridoio in una zona di conflitto morale: luce e ombra si alternano come verità e menzogna. Le musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, tra pianoforti spezzati e percussioni inquietanti, amplificano il senso di un’inquietudine costante, dove anche il silenzio diventa accusa.
Guadagnino dissemina il film di segnali, da Piero Ciampi a Morrisey, da Almodóvar ai riferimenti ai grandi maestri del pensiero, costruendo una partitura di rimandi per chi voglia leggerli. Ma il vero tema di After the Hunt è il potere dell’apparenza, come l’etica, oggi, rischi di ridursi a un look, una posa, un discorso ben confezionato. Tutti i personaggi si esibiscono in un “pret-à-penser” morale, dove la verità non è più ciò che si cerca, ma ciò che conviene mostrare.
“Dopo la caccia”, dunque, resta il vuoto. Non una morale, ma un sospetto. Che nella società della visibilità, anche la virtù sia diventata una forma di estetica. Guadagnino, con la sua solita eleganza visiva e un’intelligenza quasi crudele, ce lo ricorda senza bisogno di alzare la voce. È il suo film più lucido e spietato, e forse anche il più necessario.