Il 20 novembre di 80 anni fa, a Norimberga, cominciava il processo ai responsabili della ferocia nazista - almeno a quelli sui quali le potenze vincitrici erano riuscite a mettere le mani - per molti dei quali, in cima alla scaletta del patibolo, ci fu ad aspettarli il cappio del boia.
80 anni fa cominciava il processo di Norimberga, un capitolo della Storia da non dimenticare
Un processo che si volle celebrare nella città che il Reich aveva scelto per le celebrarsi, affidandosi alla sapiente regia di Leni Riefensthal che, con ''Il trionfo della volontà'', titolo scelto da Hitler, innalzò il nazismo ad una religione laica, dettandone i riti e indicandone gli officianti.
Per la prima volta, a Norimberga, degli uomini venivano processati perché le loro azioni non avevano avuto come obiettivi e vittime solo degli uomini, ma, nel pensiero dei Vincitori, tutta l'umanità.
Un evento epocale che generò commenti e anche critiche, la maggior parte dei quali, da parte di giuristi, incentrate sul fatto che si trattava di una giustizia ''di parte'', con regole scritte ex post da chi aveva vinto.
Ma furono questioni che rimasero nell'ambito di un confronto giurisprudenziale, superato dall'enormità della materia oggetto del processo: un programma di sterminio, che non aveva riguardato solo gli ebrei, ma tutti coloro che il nazismo considerava d'ostacolo alla costruzione del Reich, quello dei Mille anni, che non poteva consentirsi di lasciare in giro qualcosa o qualcuno che ne ostacolasse il delirio di onnipotenza.
Su quel processo tantissimo si è scritto e discettato.
E tanto anche è stato raccontato in libri, film (l'ultimo, ''Norimberga'', con Russel Crowe che, nei panni di Hermann Göering, regala una grande prova attoriale), documentari, in una narrazione totale che, in qualche caso, ha anche riguardato chi non si riconosceva nella ricostruzione storica, cercando di inquinarla, con un meccanismo revisionistico.
Quel processo cominciò appena pochi mesi dopo la fine ufficiale della Seconda Guerra Mondiale, una scelta precisa e che oggi sarebbe impossibile, visti i tempi della Giustizia nei Paesi democratici.
Ma quella celebrazione quando ancora l'Europa era scossa dalle continue scoperte delle nefandezze del nazismo e del fascismo, nelle varie accezioni nazionali, non fu una opzione, ma la consapevolezza che il tempo avrebbe giocato a favore di coloro che erano alla sbarra, annacquando lo sdegno e attenuando la sete di vendetta e, forse, anche alimentando la mitizzazione del nazismo e dei suoi protagonisti.
Quindi, in una città ridotta ad un cumulo di macerie, così come lo era Dresda, ''vittime'' dello sdegno per la sorte riservata dalla Luftwaffe a Coventry, il processo ebbe inizio in un'aula che, stravolgendo la tradizionale scenografia, vedeva i giudici e gli imputati separati solo da un corridoio centrale, quasi a imporre ai secondi di guardare sempre coloro che ne avrebbero deciso la sorte, dopo avere accantonato l'idea, che pure era stata tirata fuori, di passarli subito per le armi, non concedendo loro il ''lusso'' di un procedimento.
Tra gli imputati spiccava Hermann Göring, delfino di Hitler, che, quando fece il suo ingresso in aula, aveva perso decine di chilogrammi (era arrivato a pesarne 136) perché la prigionia lo aveva privato delle droghe che lo costringevano ad ingozzarsi di cibo.
Asso dell'aviazione nella Prima Guerra Mondiale, era, a suo modo, un esteta, amante dello sfarzo (disegnava da solo le sue appariscenti divise) e, anche davanti all'imminenza della fine, era rimasto al suo posto, che per lui significava stare accanto al Fuhrer.
Arrestato in Austria, mentre cercava di fuggire, Göring affascinò i suoi carcerieri, con i quali parlava in inglese, dispensando consigli e rivelando particolari della sua avventurosa esistenza.
A Bad Mondorf, in Lussemburgo, dove l'esercito americano aveva ristrutturato un grande hotel per utilizzarlo come prigione per i vertici nazisti e dove era stato trasferito, che incontrò per la prima volta lo psichiatra americano Douglas M. Kelley, che trascorse molte sedute ad intervistarlo e a sottoporlo a test psicologici, scoprendo che l'ex Reichsmarschall era dipendente dalla paracodeina, un antidolorifico, e che ne assumeva decine dosi al giorno.
Kalley lo aiutò a liberarsi da quella dipendenza e a perdere peso.
Come raccontato da ''Norimberga'', Kalley, interpretato da Rami Malek, aveva l'ambizione di identificare tra i nazisti una psicosi condivisa o un particolare disturbo mentale, perché solo questo, a suo avviso, poteva spiegare i loro atti mostruosi. Lo psichiatra, alla fine, dovette arrendersi al realtà che non c'era alcuna evidenza clinica, ma che si trovava davanti solo degli opportunisti, sedotti dall'opportunità di esercitare il potere e di sfruttare gli altri per il proprio interesse.
Quindi, una categoria che è sempre esistita, anche se non sempre si macchia delle atrocità del nazismo.
Il processo, oltre al ''peccato originale'' di avere eretto i Vincitori a giudici ultimi e supremi, costituì una pietra miliare dalla storia della Giustizia, perché dei filmati furono portati al rango di prova.
Erano quelli girati dai soldati alleati mentre liberavano i campi di sterminio, riprendendo cadaveri impilati l'uno sull'altro e figure emaciate che camminavano trascinandosi, tra dolore, denutrizione e follia.
La scelta di filmare i campi di concentramento fu frutto della precisa richiesta del generale Eisenhower. Lo stesso fecero i russi.
Göring fu condannato a morte per impiccagione, ma si uccise, la sera prima del giorno dell'esecuzione, con una dose di cianuro, lasciando un alone di mistero su come se la fosse procurata. Göring lasciò un biglietto al comandante della prigione in cui affermava che nessuna delle guardie era responsabile, sostenendo d'essere stato lui a introdurre di nascosto il cianuro nella sua cella, celato in un barattolo di crema per capelli.
In un altro biglietto, Göring affermava che avrebbe permesso agli Alleati di fucilarlo, "una morte da soldato", ma si rifiutò di accettare l'umiliazione dell'impiccagione.
Kelley scrisse un libro sulle sue esperienze con gli imputati nazisti, intitolato "22 celle a Norimberga", e tenne numerose conferenze. Ma quelli che per lui erano i mancati riconoscimenti al suo lavoro e al suo libro lo spinsero verso l'alcool.
All'età di 45 anni, il giorno di Capodanno del 1958, dopo una furibonda discussione con la moglie, e di fronte al figlio e al padre, Kelley ingoiò drammaticamente del cianuro, uccidendosi nello stesso modo che aveva scelto Göring.