L'immagine che meglio di ogni altra può rappresentare il crepuscolo di Beppe Grillo non è quella dei trionfi posticci - come il canotto, con lui sopra, sostenuto a braccia de decine e decine di adoranti fans, in una piazza affollata - , ma quelle che lo ritraggono mentre, nella solitudine che aggredisce chi ha perso il potere, disquisisce dei massimi sistemi con messaggi da cui sembra emergere un progressivo distacco dalla realtà del quotidiano vivere della gente normale, in cui parla con un linguaggio per iniziati, quasi a volere rimarcare la primazia dell'eletto.
Grillo, l'uomo che volle farsi re, in cammino verso l'indifferenza
La gente normale è quella alla quale lui, all'inizio della sua avventura politica, si rivolgeva parlando chiaramente, attingendo alla pancia della ribellione da sempre rivolta verso chi comanda.
I messaggi che Grillo lanciava erano quelli del populismo più puro, intriso di tecnicismo, di richiami a ideologie confuse in cui la celebrazione della tecnologia, come guardiano della società, occhieggiava ad un luddismo che avesse come bersaglio la politica.
Messaggi che fecero presa, in un modo che sconvolse i partiti, quelli che, eredi della devastazione provocata dalla stagione di Mani pulite, pensavano che bastasse una mano di vernice sulla facciata per riprendere da dove erano stati costretti a fermarsi.
Ma quella di Grillo è stata una rivoluzione incompiuta perché, dopo avere conquistato il Paese, girando il capo, s'è accorto che dietro non aveva generali, capaci di raccogliere la sua eredità di strombazzata purezza, ma una massa magmatica di caporali, non di quelli che, come diceva Napoleone, potevano anche avere nel loro zaino un bastone da maresciallo.
Come tutte le parabole, quella di Beppe Grillo, una volta toccato il punto più alto, ha cominciato a scendere e mai nessuno avrebbe mai potuto pensare che la tragedia fosse incombente, restituendolo a quel ruolo di guitto che ha sempre rivendicato, anche quando si comportava da capo di un partito.
Ora il percorso all'indietro è diventato una corsa e lui, che sferzava tutti dall'alto del grido ''Onestà, onestà'' - che doveva essere un dogma e che si è invece dimostrato un slogan, al quale in pochi hanno creduto -, ora si ritrova a fare i conti con un bellissimo passato, un presente opaco e un futuro ancora più oscuro.
Beppe Grillo, che riempiva i teatri, con spettatori plaudenti alle sue battute, s'è lentamente spersonalizzato, immolando sull'altare dell'ambizione la sua lingua tagliente, ridotta alla fine a fare battute che a nulla hanno portato, se non alla presa di consapevolezza dei suoi che puntare ancora su di lui era una scommessa perdente.
Per questo, alla fine, il movimento divenuto partito ha deciso, con un processo inesorabile, di lasciarlo nell'indeterminatezza di un ruolo formale - garante: che mai significa? - piano piano svuotato di contenuti reali, pur lasciandogli il pennacchio e le laute prebende.
La botta finale, per lui, non è stata la condanna del figlio Ciro per violenza sessuale di gruppo (otto anni, in primo grado), che pure è stata un colpo, ma la sua decisione di spendersi in sua difesa, dimenticando che, in quel momento, era ancora la faccia ufficiale dei Cinque Stelle, mischiando il suo ruolo politico a quello umanamente comprensibile di padre ferito.
Quel video, con il volto trasfigurato dalla rabbia, ha rimandato agli italiani l'immagine di un uomo che difende i suoi affetti, ma, allo stesso tempo, di chi pensa di potere usare la potenza della sua presenza politica per piegare la Giustizia, o almeno influenzarla, e comunque di creare un clima teso intorno ad un processo che, allora, era ancora in fase d'istruzione e, quindi, con un giudizio ancora sospeso.
Ecco, quindi, il dubbio su quale fosse il vero Beppe Grillo: il predicatore che ammaliava la gente parlando di giustizia e benessere, di una società digitale e di un mondo all'insegna dell'autosufficienza, o il padre che urlava gridando l'innocenza del figlio, alla quale i suoi seguaci dovevano credere acriticamente, come fosse un dogma.
Grillo è morto, politicamente, con l'avvento di Giuseppe Conte?
Non è esattamente così perché la sua stella si è appannata negli anni, perdendo la vis oratoria corrosiva che ne aveva caratterizzato gli esordi, da comico e da politico, e lasciandolo andare per la deriva dell'autocitazione, del compiacimento del linguaggio iniziatico, difficile da comprendere dai suoi stessi pretoriani che hanno cominciato a prendere le distanze da lui e dal suo modo di intendere il ruolo.
I tempi dei grillini in deliquio davanti alle sue battute criptiche sono finiti, come quelli in cui l'hotel in cui soggiornava nelle sue visite romane era assediato da fotografi, cineoperatori e giornalisti, che continuavano a seguirlo anche se lui li dileggiava, insultandoli pesantemente come facenti parte del sistema del potere.
Quei tempi sono un ricordo e lui, dal suo eremo dorato, di tanto in tanto lascia trapelare una ennesima visione del mondo attingendo alla sterminata biblioteca dei pensatori del XX e XXI secolo, quasi che la verità non possa che trovarsi in righe e concetti comprensibili a pochi. Un modo di comunicare che accentua il senso di isolamento che ormai promana dalle sue esternazioni.
Que reste-t-il de nos amours ? avrebbe detto Charles Trenet. Che resta degli amori di quel tempo? Nulla, solo l'immagine, l'ennesima, di un uomo che aveva in mano il Paese e che, come la sabbia, l'ha visto scivolare dalle dita.