FOTO: Instagram - @vaccapower
Ci sono storie che entrano nel petto senza bussare, ti scovano nelle pieghe più vulnerabili e si accomodano lì, dove non puoi più ignorarle. La storia di Giada e della sua Peep è una di quelle vicende che non chiedono permesso: semplicemente ti obbligano a guardare in faccia ciò che conta, e ciò che può ancora ferire. Perché a volte il dolore non arriva solo dalla vita che se ne va, ma da chi pretende di spiegarti come dovresti sentirlo.
L'amore non si pesa (ma qualcuno ci prova)
Giada - “Vaccapower” per quella comunità online che la segue con affetto - ha vissuto nelle ultime settimane l’incubo che ogni proprietario di un animale conosce fin troppo bene: quel momento sospeso in cui guardi il tuo cane e capisci che il tempo ha iniziato a sgocciolare via. La diagnosi è arrivata come una sentenza senza appello: leucemia mieloide acuta. Rapida, feroce, spietata.
Il tipo di parola che azzera il fiato e lascia solo un interrogativo, il più lacerante: quanto resta? La chemioterapia costava tremila euro a ciclo: una montagna ripida per chi vive del proprio lavoro, senza rendite né santi in paradiso. E però Giada non si è persa d’animo, e ha fatto l’unica cosa sensata quando ami davvero: ci ha provato. Ha aperto una raccolta fondi con il pudore di chi non ha mai chiesto nulla, con l’imbarazzo di chi sente sulle spalle il peso di domandare.
E così, per una volta, la tanto sputtanata rete, quella accusata di cinismo e villania, ha risposto con un calore inaspettato: millesettecento persone, quindicimila euro in poche ore. C’è chi ha donato due euro, chi venti, chi cinquanta. È la cifra che dai senza pensarci troppo a chi ti chiede un gesto fuori dal supermercato. È un moto spontaneo, un “fai qualcosa, anche se poco”. Poi è arrivato l’intruso: il giudizio. Sempre puntuale, sempre pronto a mettere ordine negli affetti altrui. Don Andrea Forest, direttore della Caritas di Vittorio Veneto, ha parlato di “proporzione degli affetti” e di “razionalità delle scelte”.
Si è persino detto colpito dalla generosità dei donatori. Dopodiché, immancabile come un’ombra al tramonto, è arrivato il però. Quello che odora già di sentenza: non sarebbe stato meglio aiutare esseri umani? Chi può mettere sullo stesso piano la vita di un cane e quella di una persona? La spiegazione è persino più dolorosa della domanda. Gli animali, ha sostenuto il sacerdote, sarebbero relazioni semplici, immediate, prive della complessità e della fatica dei rapporti umani. Insomma: affetti minori, sentimenti di seconda categoria, amori comodi. Ed è qui che le parole inciampano. Perché giudicare non è una colpa in sé - siamo umani, giudichiamo in continuazione - ma stabilire che un dolore valga meno di un altro è un gesto che, quello sì, tradisce una mancanza di empatia travestita da ragionevolezza. Giada ha replicato con la dignità di chi non ha nulla da nascondere. Ha spiegato il proprio lavoro, la propria economia al centesimo, la fatica emotiva immensa dell’aprire una raccolta fondi. “Non lo avrei mai fatto se non fosse stato per Peep”, ha scritto promettendo, ricevute alla mano, trasparenza totale, e l’impegno a devolvere qualsiasi avanzo alle associazioni che aiutano altri animali.
Ma non è bastato. Perché il problema non era la gestione dei soldi: era l’idea stessa che quei soldi fossero stati spesi per un cane. Nonostante gli sforzi, Peep non ce l’ha fatta. Il 9 dicembre se ne è andata, e Giada ha scritto parole che pesano più di tutte le omelie sulle “gerarchie degli affetti”: «Per me sei e sarai per sempre il mio tutto». A questo punto serve fermarsi. E ricordare una semplice verità: aiutare un cane non significa voltare le spalle agli esseri umani. Chi ha donato due euro per Peep è spesso la stessa persona che li dona in egual misura a chi chiede per strada. Anzi, paradossalmente, chi fatica a fine mese è spesso il primo a riconoscere la sofferenza altrui, in qualsiasi forma si presenti. Perché l’amore vero non sottrae: aggiunge. E dire che il rapporto con un animale sia più semplice, leggero, disimpegnato, significa ignorare la realtà. Significa non avere mai visto una persona anziana sopravvivere alla solitudine grazie a un gatto. Significa non sapere quanti cani abbiano salvato vite umane fiutando tumori o prevenendo crisi epilettiche. Significa non aver mai osservato le macerie emotive di chi perde il proprio animale dopo anni di convivenza quotidiana.
E sì, anche gli animali - ultimo dettaglio teologico, per chi se lo fosse dimenticato - sono creature di Dio. E allora stupisce, e ferisce, vedere proprio chi dovrebbe incarnare l’empatia cristiana mettersi a erigere barriere invece di abbatterle. Se la preoccupazione del sacerdote fossero davvero i poveri, allora forse la critica andrebbe diretta altrove: verso istituzioni assenti, stipendi dorati, sprechi vergognosi, anche in casa propria.
Perché il Vaticano, volendo, potrebbe risolvere più di un’emergenza sociale vendendo una minima parte dei propri beni. Ma nessuno glielo rinfaccia ogni giorno, e non lo farò certo io. Forse il don avrebbe fatto cosa buona e giusta a riflettere, per esempio, su un tema reale: l’accesso alle cure veterinarie, che costringe molte famiglie a scelte indegne di un Paese civile. Quando ho letto l’appello di Giada, ho ricordato il mio 22 ottobre: il giorno in cui ho firmato un preventivo da duemila euro per tentare di salvare il mio cane.
Ne ho spesi “solo” ottocento perché è morto sotto i ferri. Ma non mi vergogno a dirlo: avrei firmato in bianco. Avrei firmato tutto. E se un sacerdote - colui che dovrebbe comprendere e consolare - non riesce a comprenderlo, mi dispiace per lui. Non per me. Perché l’amore non si pesa come mandarini un tot al chilo. Non si mette in fila, non si classifica, non si ordina per priorità morali. Chi ama lo sa: si dà tutto. E basta. Alla fine resta una domanda: chi decide quali emozioni siano legittime? Chi stabilisce per chi valga la pena commuoversi? La risposta è disarmante nella sua semplicità: nessuno.
Ognuno deve essere libero di aiutare chi vuole, senza sentirsi addossare una cattedra morale. Senza doversi giustificare. Senza dover spiegare che no, non stai togliendo nulla a nessun altro se scegli di salvare il tuo cane. Peep non c’è più. Ma chi ha donato per lei non ha sbagliato nulla. Ha solo scelto di amare. E l’amore - quello vero, quello che non chiede permesso - non ha mai bisogno di spiegazioni. È l’unica cosa che davvero conta. Sempre e comunque.