Gli Stati Uniti e Israele hanno avviato contatti con funzionari di Sudan, Somalia e la regione separatista della Somalia nota come Somaliland, per valutare la possibilità di reinsediare nei loro territori i palestinesi sfollati dalla Striscia di Gaza, secondo quanto riferito da funzionari americani e israeliani all’agenzia Associated Press.
USA e Israele pensano all'Africa per il reinsediamento dei palestinesi sfollati da Gaza
Il confronto evidenzia la determinazione di Washington e Tel Aviv di esplorare opzioni per il trasferimento permanente di oltre due milioni di palestinesi, nonostante le condizioni di instabilità e povertà diffuse nelle aree prese in considerazione, tanto che il progetto statunitense è stato definito dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu una "visione audace".
Fonti sudanesi hanno dichiarato di aver respinto la proposta statunitense, mentre le autorità della Somalia e del Somaliland hanno affermato di non essere state contattate in merito: al riguardo, la Casa Bianca ha evitato di commentare la questione.
Il piano si ricollega a una proposta dell’amministrazione Trump, che prevede un controllo statunitense sulla Striscia di Gaza, un lungo processo di bonifica e un successivo sviluppo immobiliare dell’area.
Tuttavia, ieri, il presidente americano Donald Trump ha apparentemente escluso l’ipotesi di un trasferimento forzato della popolazione gazawa. Interpellato da un giornalista sull’eventualità del piano di espulsione durante il colloquio con il primo ministro irlandese Michael Martin, in visita a Washington, Trump ha risposto che "nessuno espellerà i palestinesi" dalla Striscia di Gaza.
L’Egitto, Hamas e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina hanno accolto positivamente la dichiarazione, con il Ministero degli Esteri egiziano ha sottolineato che tale affermazione “riconosce l’importanza di evitare il peggioramento delle condizioni umanitarie nella regione e la necessità di lavorare per soluzioni giuste e durature per la causa palestinese”. Il portavoce di Hamas, Hazem Qassem, ha affermato che “le dichiarazioni di Trump sulla mancata espulsione dei residenti di Gaza sono state ben accolte”. Il segretario generale dell’Olp, Hussein al-Sheikh, ha espresso il proprio apprezzamento in un messaggio pubblicato su X, affermando che “apprezziamo le dichiarazioni del presidente americano che confermano che gli abitanti della Striscia di Gaza non sono obbligati a lasciare la loro patria”.
Quanto teorizzato dagli USA ha tuttavia un precedente: nel 1991, 34 aerei militari e civili della compagnia di bandiera israeliana El Al portarono in circa 36 ore quasi 15mila ebrei etiopi, da Addis Abeba in Israele. L’operazione, nota come “Operazione Salomone”, fu la terza di un vasto programma di salvataggio organizzato dal governo israeliano e gestito dal Mossad per salvare la vasta comunità dei cosiddetti Beta Israel, ovvero “Casa di Israele”.
L’origine della comunità ebraica etiope è incerta: le prime testimonianze documentate risalgono al 600-700 d.C., anche se alcuni membri della comunità ascrivono la propria discendenza fino alla diaspora seguita alla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 587 a.C. Per secoli, i Beta Israel hanno vissuto in isolamento, subendo discriminazioni da parte delle popolazioni circostanti di fede musulmana e ortodossa, mentre il mondo ebraico ha tardato a riconoscerli come parte della propria tradizione religiosa. Con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, le autorità israeliane li hanno infine riconosciuti come ebrei aventi diritto alla Legge del ritorno, aprendo la strada a una serie di operazioni di salvataggio.
L’Operazione Mosè tra il 1984 e il 1985, l’Operazione Saba nel 1985 e, appunto, l’Operazione Salomone nel 1991 hanno permesso l’esfiltrazione di migliaia di Beta Israel dall’Etiopia, specialmente dopo la caduta del regime di Mènghistu Hailè Mariàm.
La più imponente di queste missioni, l’Operazione Salomone, ha visto una delle più impressionanti azioni di trasferimento aereo di rifugiati della storia. Tuttavia, l’integrazione della comunità ebraica etiope in Israele è stata segnata da difficoltà socioeconomiche, discriminazioni e ripetuti episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine, con una significativa parte della popolazione che vive ancora oggi in condizioni di povertà.
Ancora più complessa è la situazione dei Falash Mura, discendenti di ebrei etiopi convertitisi al cristianesimo spesso sotto costrizione e successivamente ritornati alla pratica dell’ebraismo e non riconosciuti completamente ebrei da Israele, che nega loro il diritto automatico alla cittadinanza. Nel 2015 il governo israeliano aveva annunciato un piano per trasferire gli ultimi 10mila Falash Mura ancora in Etiopia, ma il progetto è stato bloccato per mancanza di fondi, consentendo il passaggio a sole duemila persone. Un nuovo piano di spostamento è stato avviato tra il 2020 e il 2021, permettendo l’ingresso in Israele di altre duemila persone, ma lasciando ancora migliaia di Falash Mura in attesa di una decisione definitiva sulla loro sorte.