Mentre il mondo accelera verso un'immersione sempre più totale nel digitale c’è un posto, nel cuore industriale del Giappone, dove si prova a rallentare. A Toyoake, sobborgo di Nagoya, il sindaco Masafumi Kouki ha infatti proposto e ottenuto l’approvazione di una “direttiva locale” che raccomanda di limitare l’uso dello smartphone a due ore al giorno.
Due ore di smartphone al giorno: l'esperimento di Toyoake contro la dipendenza digitale
Nessuna multa, nessun controllo: solo un invito alla moderazione, che ha il sapore di un appello morale. Perchè dietro questa apparente semplicità, si cela una preoccupazione profonda che il primo cittadino non esita a condividere. "Osservo da tempo con crescente inquietudine l'impatto devastante di un consumo smodato dei dispositivi mobili, in particolare l'erosione drammatica delle relazioni interpersonali autentiche", spiega Kouki all'agenzia France-Presse, aggiungendo con una punta di malinconia: "Persino sui treni, ormai, ciascuno è rinchiuso nel proprio mondo virtuale. Lo sguardo è fisso, la conversazione scomparsa. Ho ritenuto necessario offrire uno spunto di riflessione collettiva su questa deriva".
Una constatazione, questa, che certamente non appartiene soltanto alla realtà giapponese ma risuona universale, quotidiana, quasi banale nella sua tragica evidenza. Basta attraversare una strada qualsiasi, in qualunque metropoli del mondo, per verificare quanto l'osservazione del sindaco colga nel segno: gli esseri umani si sono trasformati in monadi digitali, entità isolate che si muovono nello spazio fisico mentre abitano altrove, in una dimensione parallela fatta di notifiche, messaggi, feed infiniti.
Quante volte, camminando sul marciapiede, siamo stati sfiorati, urtati, quasi investiti da qualcuno che procedeva con lo sguardo inchiodato allo schermo, inconsapevole della presenza altrui? Quante volte abbiamo assistito a tavolate silenziose dove ciascun commensale dialoga non con chi gli siede accanto, ma con interlocutori virtuali lontani chilometri? Questa distrazione collettiva, questa assenza pur nella compresenza fisica, è forse la cifra più inquietante della nostra epoca: non siamo più soltanto distratti, siamo altrove, perpetuamente altrove. E l'iniziativa di Toyoake, per quanto modesta nelle sue ambizioni, ha il merito di nominare questo disagio diffuso, di trasformarlo da malessere individuale a questione politica degna di attenzione pubblica.
C’è poi da sottolineare la natura volontaria della direttiva, che rappresenta insieme il suo punto di forza e la sua maggiore vulnerabilità. Si tratta, in sostanza, di un patto fiduciario tra amministrazione e comunità, un invito all'autodisciplina che confida nella capacità dei cittadini di riappropriarsi consapevolmente del proprio tempo. L'iniziale diffidenza - pressoché unanime, ammette candidamente il sindaco - si è progressivamente attenuata quando è stato chiarito che il computo esclude le ore dedicate alle attività professionali o scolastiche, configurandosi dunque come un'indicazione per il tempo libero piuttosto che come un'imposizione totalizzante. Tuttavia, le resistenze permangono significative.
Shutaro Kihara, studente di giurisprudenza di ventidue anni, sintetizza lo scetticismo delle nuove generazioni con lucidità disarmante: "Ormai il telefono è lo strumento attraverso cui svolgiamo qualsiasi attività: apprendimento, svago, relazioni sociali. Regolamentarne l'uso mi appare non soltanto inefficace, ma sostanzialmente inutile, specialmente per chi è cresciuto nell'era digitale". Ancor più netta è la posizione della consigliera comunale Mariko Fujie, cinquantenne che non ha esitato a esprimere il proprio dissenso in sede di votazione. "L'abuso degli smartphone costituisce indubbiamente una problematica sociale rilevante, ma sono fermamente convinta che non spetti alle istituzioni stabilire come i cittadini debbano gestire il proprio tempo libero. Si configura come un'indebita invasione nella sfera privata individuale", afferma con determinazione. Nonostante il dibattito acceso, i primi segnali di cambiamento iniziano a manifestarsi.
Ikka Ito, studente delle scuole medie, racconta di aver modificato spontaneamente le proprie abitudini: "In precedenza trascorrevo davanti allo schermo dalle quattro alle cinque ore giornaliere. Adesso mi impegno a ridurle, e lo faccio di mia iniziativa, senza che i miei genitori debbano rimproverarmi". Una testimonianza che suggerisce come l'efficacia dell'ordinanza risieda forse proprio nel suo potere simbolico, nella capacità di innescare una riflessione personale piuttosto che nell'imposizione di regole stringenti. Il documento deliberativo si spinge oltre, raccomandando l'astensione dagli schermi dopo le ventuno per i bambini delle elementari e dopo le ventidue per gli studenti più grandi, con l'obiettivo esplicito di tutelare la qualità del riposo notturno. Una prescrizione tutt'altro che peregrina in un contesto nazionale dove numerose ricerche documentano come i giapponesi registrino livelli di sonno significativamente inferiori rispetto alla media dei Paesi industrializzati, conseguenza tanto della cultura lavorativa ossessiva quanto della crescente assuefazione tecnologica.
Kokuka Hirano, cinquantanovenne residente a Toyoake, offre una testimonianza emblematica di questa problematica: "Perdo sonno per colpa del telefono. Comincio cercando chiarimenti su qualche argomento che mi incuriosisce e mi ritrovo, senza accorgermene, a vagare tra notizie provenienti da ogni angolo del pianeta. Le ore scivolano via inesorabilmente". Consapevole di questa dinamica, vorrebbe ora dedicare maggiori energie all'attività fisica e alla preparazione dei pasti, anche se, aggiunge con un sorriso autoironico, "tre o quattro ore giornaliere sarebbero probabilmente un obiettivo più ragionevole".
Lo stesso sindaco Kouki si pone come modello dell'approccio che auspica per la comunità. Padre di due bambini di sette e dieci anni, riferisce che nessuno dei due possiede un dispositivo personale. "Il più grande utilizza occasionalmente quello della madre, ma ci sforziamo di bandire gli schermi durante i pasti familiari. È un gesto apparentemente modesto, ma contribuisce a preservare momenti di autentica condivisione", spiega. In una nazione dove il novantacinque percento degli abitanti possiede uno smartphone e gli adolescenti dedicano mediamente oltre quattro ore quotidiane ai social media, l'esperimento di Toyoake - città di appena sessantottomila anime - potrebbe apparire come un tentativo marginale, destinato a dissolversi senza lasciare traccia.
Eppure è proprio da queste periferie geografiche ed esistenziali che talvolta nascono le domande più radicali. Perché la "rivoluzione gentile" promossa da Kouki non pretende di sovvertire le dinamiche globali, ma invita ciascuno a interrogarsi sulla qualità della propria vita digitale. In fondo, questa piccola comunità industriale ci ricorda che la tecnologia dovrebbe essere uno strumento al nostro servizio, non un padrone che detta i ritmi della nostra esistenza. E se anche solo una manciata di cittadini riscoprirà il piacere di una conversazione non mediata da uno schermo, forse l'iniziativa avrà già raggiunto il suo scopo più autentico: restituirci, almeno parzialmente, la padronanza del nostro tempo.