Quando posiamo lo sguardo sullo scontrino della spesa, raramente ci soffermiamo a riflettere su ciò che non vediamo: il cibo ha un costo nascosto che non paghiamo al supermercato, ma che ricade comunque sulla collettività sotto forma di impatti ambientali, sanitari e sociali.
Il prezzo invisibile del cibo che costa più di quanto appare sullo scontrino
La perdita di biodiversità legata agli allevamenti intensivi e alle coltivazioni, il consumo massiccio di acqua e fertilizzanti, le emissioni climalteranti, il peso dei packaging sull’inquinamento e, non da ultimo, i rischi per la salute associati a un’alimentazione squilibrata. A tentare di dare un prezzo a queste esternalità è stata la green tech italiana Up2You, che per il Gruppo Food ha elaborato uno studio presentato durante il Food Social Impact 2025.
L’indagine ha preso in considerazione sette filiere chiave, dal pane ai salumi, passando per latticini, pasta e ortofrutta, sviluppando un indice specifico, l’Isfa, che misura e monetizza l’impatto socioambientale ed etico dei prodotti lungo tutta la catena produttiva. Il risultato è sorprendente: quasi tutti i beni alimentari che acquistiamo quotidianamente avrebbero un prezzo reale molto più alto di quello esposto sul banco.
Un chilo di yogurt, che oggi costa in media 4 euro, in realtà avrebbe un costo complessivo di 6,61 euro, con un incremento del 65%. Dietro questa differenza pesano soprattutto le emissioni di gas serra, l’uso dei pesticidi e il benessere animale. Lo stesso discorso vale per il prosciutto cotto, il cui prezzo al chilo di 22 euro dovrebbe salire a 26,52 euro se si includessero le esternalità. In questo caso le voci più pesanti sono le emissioni legate agli allevamenti, il benessere animale e l’impatto dei mangimi sui sistemi naturali.
Anche prodotti di origine vegetale mostrano distanze significative tra prezzo di mercato e prezzo reale. La passata di pomodoro, venduta a 2,90 euro, dovrebbe costarne 4,38, con un incremento del 51% dovuto soprattutto al consumo di acqua e agli effetti sulla biodiversità. Per il pane bianco, alimento simbolo della tavola italiana, l’aumento stimato è del 52%, da 3 a 4,56 euro al chilo, a causa dell’impatto sulla salute dei consumatori e sulle emissioni. La pasta, invece, passerebbe da 1,62 a 2,30 euro, segnata dal consumo idrico e dai fertilizzanti.
La ricerca ha messo in luce anche differenze tra prodotti simili. Le banane convenzionali, ad esempio, costano in media 2,50 euro al chilo, ma con l’aggiunta dell’Isfa arrivano a 3,31 euro. Quelle del commercio equo e solidale, marchiate Altromercato, hanno invece un gap più contenuto, passando da 2,80 a 3,32 euro. La ragione sta nel diverso impatto dei fertilizzanti e nelle condizioni di lavoro lungo la filiera. Non mancano, però, le eccezioni virtuose. I piselli surgelati registrano un aumento contenuto, solo del 20%, passando da 4 a 4,80 euro al chilo.
Una performance che li rende, secondo il report, una delle categorie più promettenti in termini di sostenibilità, grazie a una filiera che limita gli impatti in quasi tutte le dimensioni analizzate. Dallo studio emerge chiaramente come i prezzi di mercato siano sistematicamente disallineati dai costi reali sostenuti dall’ambiente e dalla società.
I prodotti di origine animale, più complessi e con processi di trasformazione articolati, risultano i più gravosi per emissioni e benessere animale, mentre quelli vegetali pagano pegno soprattutto in termini di consumo idrico e perdita di biodiversità. In ogni caso, la forbice tra ciò che spendiamo alla cassa e ciò che il pianeta e la collettività pagano davvero è ampia e, nella maggior parte dei casi, supera il 40%