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Nell’immaginario collettivo americano, poche maschere sono state tanto iconiche quanto quella di Pee-wee Herman: il completo grigio perla, il papillon cremisi, il sorriso plastico, gli occhi spalancati come quelli di un bambino colto sul fatto. Eppure, dietro quella facciata surreale e ludica, si agitava un tumulto ben più oscuro.
Il fantasma sotto il papillon: Paul Reubens, il doppio inquietante di Pee-wee Herman
Un’inquietudine profonda, stratificata, che il nuovo documentario “Pee-wee as Himself”, firmato dal regista Matt Wolf e in onda su HBO a partire da oggi, cerca finalmente di disseppellire con cura anatomica e precisione archivistica.
Per oltre quattro decenni, Paul Reubens ha vissuto in un equilibrio instabile tra la costruzione di un’icona culturale amata da intere generazioni e la gestione segreta delle proprie ombre personali. La sua morte nel 2023, a causa di un cancro ai polmoni taciuto per sei anni, ha lasciato dietro di sé un mistero irrisolto, un enigma umano troppo a lungo ridotto a carnevale televisivo.
Il documentario di Wolf si distingue per l’approccio intimista, seppur attraversato da tensioni evidenti.
Reubens, pur concedendo oltre 40 ore di interviste, ha cercato fino all’ultimo di orientare il racconto, di editare la propria verità, come un demiurgo geloso del proprio mito.
“È stato emozionante e combattivo in egual misura”, confessa al The Guardian il regista. “Paul desiderava ardentemente che il suo lato autentico venisse alla luce, ma al contempo ne temeva le conseguenze”.
Una ambivalenza che attraversa come un brivido tutto il documentario. Non solo lo svelamento della figura dell’attore, ma soprattutto la natura stessa di Pee-wee Herman viene posta sotto processo. Un personaggio infantile solo in apparenza, il cui candore sconfinava spesso in una forma di inquietudine grottesca, quasi disturbante.
Come osservò acutamente David Letterman, “ciò che mi fa ridere... è che ha la struttura esterna di un ragazzino monello e precoce, ma sai che è controllato dall'incubo, la manifestazione del male stesso”.
Wolf riesce a mettere in scena il cortocircuito fra maschera e identità, mostrando un Reubens fragile, ipersensibile, ossessionato dalla perfezione scenica e al contempo terrorizzato dalla propria autenticità.
Il documentario si apre con un Reubens che, ormai malato, invia note vocali al regista, nel tentativo disperato di custodire ciò che resta della sua eredità artistica. Le sue parole sono a tratti liriche, a tratti inquietanti: un uomo che ha vissuto per decenni “nascosto in piena vista”, aggrappato a una creatura che gli ha regalato fama e prigionia.
Il racconto si sofferma su momenti di tenera confessione e insieme di cupa rivelazione.
Reubens parla della propria omosessualità come di una verità rimossa e riemersa: “Sono uscito dal closet, e poi ci sono rientrato”, dice, commentando il modo in cui Hollywood, e l’America profonda, trattavano la diversità negli anni Ottanta. La genesi stessa di Pee-wee affonda in una relazione con un artista di nome Guy, morto tragicamente di AIDS.
Quella perdita, narrata con emozione nel film, fu una delle molle interiori che spinsero Reubens a creare un personaggio tanto astratto, quanto indifeso. Ma il documentario non tace, né edulcora, gli scandali che hanno costellato la carriera dell’attore. L’arresto del 1991 in un cinema pornografico della Florida, per atti osceni, segnò l’inizio della discesa pubblica. Seguì, nel 2002, il ritrovamento nella sua casa di immagini a sfondo pedopornografico, accuse da cui Reubens si difese sostenendo che si trattasse di collezioni vintage e materiale artistico contestualizzato, non pornografia infantile.
In ogni caso, accettò una dichiarazione di non contestazione che gli evitò il processo.
“Tutti volevano un mostro, un demone, ma nessuno voleva conoscere l’uomo”, disse amaramente in un’intervista rimasta inedita, ma trascritta nel documentario.
Il docufilm non pretende di riabilitare Reubens, ma invita piuttosto a un esame più maturo della complessità umana. Il regista Matt Wolf stesso riconosce che il giudizio morale è meno interessante della tensione tra verità e rappresentazione. Reubens appare come una figura profondamente sola, costruita attorno al silenzio e alla performance, il cui bisogno d’amore è stato sublimato in uno show per bambini che, inconsapevolmente, metteva a disagio gli adulti.
“Pee-wee as Himself” si configura quindi non soltanto come un ritratto biografico, ma come una meditazione sull’identità, il desiderio e la colpa. Un film che si interroga su cosa resta di noi quando smettiamo di recitare, e su quanto può sopravvivere un personaggio alla morte del proprio creatore. È impossibile non cogliere, dietro lo sguardo lucido del regista, una riflessione più ampia sulla cultura americana, sul desiderio di ridere senza accettare le origini tragiche della comicità.
Pee-wee Herman, con la sua voce squillante e il passo da marionetta impazzita, non era un clown qualsiasi: era il distillato di una malinconia trasformata in farsa, il travestimento festoso di un’anima in esilio.
Ora che il sipario è calato, resta da chiedersi se Paul Reubens sia stato l’artefice del proprio mito o una vittima della sua maschera. Una domanda irrisolta, come molte delle vite più dense, più vere. Una domanda a cui il documentario non dà risposte, ma offre gli strumenti per pensarle. Tutto il resto, per dirla con Amleto, è silenzio.