Superati in scioltezza i primi due anni di governo, Giorgia Meloni, in questi giorni, si trova ad affrontare nodi cruciali per il futuro politico del suo esecutivo.
I problemi, si sa, non si risolvono da soli, e lei, il presidente del Consiglio, deve cercare soluzioni che contemperino le esigenze del Paese (che sono le primarie) con un esercizio di difficile equilibrio tra le difficoltà della politica (interna ed estera), di "cassa", di alleanze.
Migranti, giudici e anche Salvini: il Natale di Giorgia Meloni
E non sono problemi di poco conto, considerando che il suo stesso governo si muove in un campo minato, dal quale solo la forte personalità della premier può consentire di uscire indenne.
Il caso più delicato da risolvere è quello dei migranti. Un caso, per così dire, bicefalo, perché riguarda due piani, entrambi potenzialmente negativi: i centri in Albania (e quindi il braccio di ferro con i magistrati che ne negano la regolarità funzionale) e la rinnovata ambizione di Matteo Salvini di tornare al Viminale, forte dell'assoluzione dall'accusa di sequestro di persona per la vicenda Open Arms.
Appena poche ore fa, Giorgia Meloni, dicendosi confortata dal pronunciamento della Corte di Cassazione, ha convocato per oggi un vertice per fare ripartire il "progetto Albania".
"Mi pare che la Cassazione abbia sostanzialmente dato ragione al governo italiano sul fatto che è diritto dei governi stabilire quale sia la lista dei Paesi sicuri, mentre i giudici possono entrare nel singolo caso rispetto al paese sicuro ma non disapplicare in toto", ha detto dalla Finlandia, dove si è recata per un vertice Nord-Sud.
Per Meloni, sono solo i governi a decidere quali siano i Paesi da considerare sicuri, quindi non i giudici, chiamati a prendere atto delle determinazioni dell'esecutivo.
Una interpretazione che da sinistra viene contestata, ma questo poco importa.
Quel che appare evidente è che Giorgia Meloni non vuole arretrare di un passo e, quindi, guarda ai centri di detenzione in Albania come una soluzione, non certo un inciampo, forte anche dall'interesse mostrato da altri Paesi per la soluzione scelta dall'Italia.
Si vedrà, anche se, dietro di lei, il governo appare compatto in questa direzione.
Ma il "nodo migranti" è intricato anche per altro, perché la sentenza di Palermo ha ringalluzzito Matteo Salvini, riaccendendo in lui la fiamma che da sempre gli fa ardere il cuore, almeno da quando non siede più al Viminale: tornare a fare lo zar anti-immigrazione, per potere tornare a cavalcare il suo cavallo di battaglia preferito.
Ciascuno è libero di alimentare le speranze che vuole, ma, tra un ammiccamento e mezze frasi, la "voglia matta" di Salvini di vestire di nuovo i panni di ministro dell'Interno emerge, alimentata anche dall'appoggio che gli riservano i leghisti (e ci sarebbe pure mancato che non fosse così).
Ma fare tornare al Viminale Salvini sarebbe una scelta politica molto forte, e non solo perché si tratterebbe di sfiduciare Matteo Piantedosi, quanto perché certificherebbe che solo il segretario leghista può vestire i tanto amati panni dello sceriffo, negando quindi che il Paese, e per esso la maggioranza, abbiano altre risorse che non siano il "capitano".
Le parole di ieri di Giorgia Meloni ("sia io che Matteo Salvini siamo contenti dell'ottimo lavoro che sta facendo il ministro dell'Interno Piantedosi") dovrebbero mettere la sordina alle ambizioni del segretario leghista.
"Dovrebbero" perché poi la realtà potrebbe essere diversa e il continuo riferirsi al Viminale e al futuro del Ministero potrebbero, alla lunga, logorare la figura di Piantedosi.