"Io sono sempre stato favorevole (inascoltato) ai rimpasti di Governo. Aiutano a migliorare la squadra e ai cittadini in fondo la cosa piace, un po' come le sostituzioni del calcio. Purtroppo i governanti odiano cambiare i ministri, forse pensano sia un po' come ammettere errori'': in questa frase, scritta dal senatore leghista Claudio Borghi, c'è la summa di un certo modo di fare politica in Italia, quello che fa ritenere che l'interesse del singolo non è detto che debba restare, come naturale, dietro quello generale.
Non ci vuole certo molto a decrittare il significato intrinseco del messaggio di Borghi che, buon ultimo, in termini temporali, rispetto ad altri esponenti leghisti, schierandosi a favore di un rimpasto dentro il governo di fatto puntella la candidatura del suo segretario, Matteo Salvini, al Viminale, obiettivo manifesto del ''capitano''.
Osservatorio politico - La Lega insiste su un rimpasto che spiani la strada del Viminale a Salvini
Tutto, come è facile intuire, nasce dalla sentenza con cui Salvini è stato assolto dall'accusa principale di sequestro di persona per la vicenda dei migranti trattenuti sulla nave dell'ong spagnola Open arms.
Per i giudici di Palermo, Salvini non doveva essere condannato e per conoscere i motivi della decisione occorre aspettare le motivazioni, i cui contenuti i sostenitori del segretario leghista danno per scontati, contravvenendo ad uno dei principi che seguono sempre gli avvocati degli imputati assolti: prima leggiamo e poi commentiamo. Questo non è accaduto e, ascoltando la sentenza (o, per essere più esatti, solo il suo dispositivo) i sostenitori di Salvini hanno letto una autorizzazione de facto ad ogni azione di contrasto all'immigrazione irregolare, quando questa interpretazione potrebbe essere parecchio lontano dalla verità.
Ma questo poco importa, perché, a sentenza appena letta, la Lega ha fatto partire la campagna d'inverno, più o meno palese, a sostegno del ritorno di Salvini alla guida del ministero dell'Interno, come se l'attuale inquilino del Viminale, Matteo Piantedosi, sia da rottamare.
Che lo stessi Piantedosi sia stato capo di gabinetto di Salvini e che di lui gli esponenti del resto della maggioranza, con Giorgia Meloni in testa, tessano le lodi (ovviamente guardando al suo operato dal loro punto di vista) sembra non incrinare la ricerca dei leghisti di un ricambio che, guarda caso, avrebbe come primo tassello la sostituzione della targhetta del nome sulla porta dell'ufficio del ministro dell'Interno.
Si dice che in politica niente deve essere dato per scontato, quindi anche il fatto che il presidente del Consiglio abbia detto che Matteo Piantedosi gode della sua fiducia e di quella del governo non incrina la ferrea determinazione dei leghisti di spianare la strada al grande ritorno, per fare sì che, forte della sentenza di Palermo, Salvini si senta ancora di più autorizzato a proseguire nella sua crociata anti-migranti clandestini, roteando lo spadone manco fosse Alberto di Giussano.
Ma questa speranza - come quella dei bambini che, nella letterina a Babbo Natale, hanno chiesto una costosissima auto elettrica o una Barbie superaccessoriata - sembra destinata a restare tale perché, riteniamo, mai Giorgia Meloni ha pensato seriamente di esaudire il desiderio del suo vice, ben sapendo che questo aumenterebbe non tanto il livello dell'azione anti-immigrati, quanto l'ego salviniano e con esso il proseguimento delle azioni di disturbo, con l'obiettivo di riprendere quota in termini di consenso.