Economia

Occupazione femminile al 56,4% nel 2024, ma il divario resta profondo: in Italia, gender gap a 19,4%

Redazione
 
Occupazione femminile al 56,4% nel 2024, ma il divario resta profondo: in Italia, gender gap a 19,4%

Sebbene i numeri raccontino un lieve progresso, il lavoro femminile in Italia resta incagliato in una palude di disuguaglianze strutturali che sembrano resistere a ogni stagione politica e a ogni piano di rilancio. Il tasso di occupazione delle donne è passato dal 55% del 2022 al 56,4% del 2024, ma il divario rispetto agli uomini rimane abissale: un 19,4% di distanza, quasi il doppio della media europea.

 

Occupazione femminile al 56,4% nel 2024, ma il divario resta profondo

 

Un dato che riassume in sé un intero sistema ancora costruito intorno a ruoli di genere rigidi e a una distribuzione del lavoro che continua a penalizzare le donne in ogni fase della vita. Di questo si è discusso al forum Elle Active, dove è stata presentata la nuova ricerca dell’Osservatorio “Il lavoro delle donne, dalla scuola alla pensione”, frutto della collaborazione tra il gruppo Hearst e il CRILDA dell’Università Cattolica, coordinato dal professor Claudio Lucifora.

 

L’indagine, condotta su un ampio campione di oltre cinquemila persone nate tra il 1940 e il 1970, mostra come le carriere maschili e femminili si separino presto e in modo netto. Mentre nei primi anni lavorativi le differenze sono contenute, attorno ai 35 anni si apre un abisso: “A quell’età un uomo è occupato nel 95% dei casi, mentre una donna ha solo il 50% di probabilità di avere un impiego, il 40% di essere inattiva e il 10% di trovarsi disoccupata”, spiegano i ricercatori.

 

Il problema, come sottolinea Lucifora, è che “il momento cruciale in cui per molte donne la carriera subisce un cambiamento è la nascita del primo figlio”. In quella fase, una madre su cinque abbandona definitivamente il proprio lavoro. È lì che si genera un effetto domino: “Molte iniziano ad accumulare divari crescenti di anzianità e contributi che non riusciranno più a recuperare. Anche chi rientra dopo la maternità spesso orienta le proprie scelte in funzione delle responsabilità familiari, accettando lavori meno ambiziosi o meno retribuiti”.

 

Il peso del lavoro di cura continua infatti a ricadere quasi interamente sulle spalle femminili. Secondo l’Istat, le donne dedicano in media quattro ore e trentasette minuti al giorno alle faccende domestiche e alla cura dei familiari, contro un’ora e quarantotto minuti degli uomini. Nell’arco di una vita, questo significa accumulare oltre quarantamila ore di lavoro non pagato, l’equivalente di vent’anni di impiego a tempo pieno. È un tempo sottratto alla carriera, alla crescita economica e, in ultima analisi, alla libertà.

 

A pesare è anche la diffusione del lavoro part-time, che per molte donne non è una scelta ma una necessità. In Italia il 31,5% delle lavoratrici è impiegato a tempo parziale, contro una media europea del 28%, mentre solo l’8% degli uomini lavora part-time. Il vero problema è che nella maggioranza dei casi si tratta di part-time “involontario”: un adattamento forzato, l’unica opzione possibile per conciliare lavoro e vita privata in un Paese che ancora oggi offre poco in termini di servizi di supporto. Le aspettative sociali, del resto, continuano a esercitare un’influenza profonda.

 

Le credenze di genere - osserva Lucifora - condizionano le scelte, rendendo alcune donne meno propense a lavorare, o più inclini ad accettare impieghi part-time o non retribuiti”. È un meccanismo che spinge molte a rinunciare alle professioni più competitive o a considerare il proprio stipendio come “secondario” rispetto a quello del partner.

 

Il risultato è una segregazione occupazionale tra le più alte d’Europa. Circa la metà dell’occupazione femminile si concentra in appena ventuno professioni, spesso quelle considerate “tradizionalmente femminili” e meno pagate, mentre per gli uomini le professioni principali sono cinquantatré. Una forbice che non si chiude nemmeno con l’età: il divario retributivo aumenta nel corso della carriera fino a superare il 30% negli ultimi anni di lavoro, il cosiddetto “soffitto di cristallo” che blocca le donne alle soglie delle posizioni di vertice.

E quando arriva la pensione, il conto si presenta amaro. In Italia il gender gap pensionistico è di circa il 30%, il che significa che le donne anziane percepiscono un reddito pensionistico inferiore di quasi un terzo rispetto agli uomini. L’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE) avverte: “Le donne anziane in Italia sono più povere e più vulnerabili, rischiano di non essere finanziariamente indipendenti”. C’è però un fattore che può invertire la rotta, e si chiama istruzione.

La ricerca evidenzia come la formazione sia l’arma più potente per rompere gli stereotipi di genere e aprire la strada a professioni ancora dominate dagli uomini. Negli ultimi decenni, le donne italiane hanno raggiunto - e spesso superato - i risultati accademici dei colleghi maschi, segno che il cambiamento culturale è possibile, anche se ancora incompiuto. Come ricordano i ricercatori del CRILDA, “la parità di genere è un diritto umano fondamentale che impatta non solo sul benessere individuale, ma anche su quello collettivo, perché è un fattore di sviluppo, partecipazione democratica e coesione sociale”. Una frase che suona come un monito, ma anche come una promessa: quella di un Paese che potrà dirsi davvero moderno solo quando smetterà di chiedere alle donne di scegliere tra il lavoro e la famiglia.

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