Giampiero Mughini smonta il museo di sé stesso. O meglio, lo svende, pezzo pregiato dopo pezzo pregiato, in un'operazione di liquidazione sentimentale che rasenta il tragicomico. Il nostro intellettuale giacobino, quello che per decenni ha tuonato contro le ipocrisie altrui brandendo il verbo del denaro come misura suprema di libertà, oggi si scopre vittima della propria prodigalità compulsiva. E piange miseria. Letteralmente. “Non c'è più nessuno che mi proponga un lavoro”, dice in un’intervista rilasciata al Foglio nei giorni scorsi lamentando d’esser afflitto dal più crudele dei flagelli: l’oblio televisivo. Sì, perché la tivù, quella cornucopia di cachet sonanti che gli permetteva di “vivere come volevo”, ha spento i riflettori. E con essi, ahinoi (anzi, ahilui), anche i doviziosi emolumenti che alimentavano la sua vita da bibliomane impenitente nel “Mughenheim” di Monteverde Vecchio. E però… Facciamo due conti, che Mughini tanto ama parlare di denaro senza pudore.
Nel 2015 si vantava di percepire 170mila euro lordi l'anno. Oggi, con la sola pensione, guadagna poco più di 6mila euro lordi mensili. Una cifra che, per inciso, rappresenta circa cinque volte la pensione media degli italiani e dieci volte quella minima. Eppure, udite udite, sono “miserie”. Miserie con cui milioni di pensionati nostrani camperebbero beatamente senza dover svendere i propri cimeli. Ma evidentemente quando hai trasformato la tua dimora in una sorta di Louvre della letteratura novecentesca, con tanto di cartiglio pomposamente affisso in facciata (“Questa casa è abitata da Leonardo Sciascia, Andrea Pazienza e altri”), beh, seimila euro al mese possono effettivamente risultare lievemente esigui. Il problema, ipse dixit, è che “Nella vita non ho saputo mettere niente da parte, tranne i miei libri”. Traduzione: ho sperperato tutto in prime edizioni, quadri, vezzi da flaneur metropolitano, e ora che la greppia televisiva si è inaridita scopro con stupefazione postuma che i libri, pur preziosi, non si mangiano. Tradotto ancor più terra terra: quarant'anni di lauti guadagni volatilizzati nell'etere della vanità intellettuale. Compensi televisivi che avrebbero potuto garantire una vecchiaia aurea, polverizzati sull'altare della collezione feticista. “Spese con gusto”, dice allargando il braccio verso le sue stanze zeppe di memorie cartacee. Certo, un gusto squisito, nobile, raffinato. Peccato fosse anche pecuniariamente insostenibile.
E qui viene il bello. Perché Mughini, che ha sempre predicato il suo personalissimo catechismo materialistico (“non fare mai un lavoro gratis”) ora deve capitolare dinanzi alla legge ferrea dell'economia domestica: anche i musei di sé stessi hanno un costo di gestione. Perché ventimila volumi non si spolverano da soli. Un villino degli anni Trenta a Monteverde non si riscalda con l'erudizione. Le prime edizioni di Pavese e Calvino, per quanto pregiatissime, non pagano le bollette. E allora ecco la resa, “somigliantissima a un congedo”: vendere a Pontremoli, il libraio milanese di fiducia, i pezzi più preziosi della collezione. “Mi viene strappata l'anima”, sospira. Un'anima valutata, evidentemente, in base al suo prezzo di mercato nel settore antiquario. Naturalmente, anche nel naufragio economico, Mughini mantiene le sue prerogative estetiche. Alcuni libri non li venderà mai: i tre volumi di Svevo ("di leggendaria rarità"), quelli di Saba ("perché su Trieste ho scritto un libro al quale tengo molto"), e Carlo Dossi, a cui crede di somigliare. "Era uno che inventava sé stesso ogni giorno", dice. Come dire: anche nell'indigenza, un po' di narcisismo bibliofilo non si nega a nessuno. La vendita sarà accompagnata da un catalogo. "Così almeno un libro resta mio, e lo firmano pure". Consolazione magra per chi ha fatto della propria biblioteca l'unica forma di patrimonio accumulato in sessant'anni di carriera. Non un dramma, sia chiaro: un riposizionamento, si direbbe in gergo di marketing. “Sulla mia tomba si potrebbe scrivere ‘qui giace una brava persona’”, suggerisce Mughini concludendo l'intervista. Nulla da eccepire. Ma, con rispettosa impertinenza che il nostro eroe sicuramente coglierà, suggeriamo un’epigrafe alternativa: “Qui giace chi visse da nababbo e morì lamentandosi da povero con seimila euro al mese di pensione”.