Se oggi il destino del mondo dovesse avere un indirizzo, difficilmente sarebbe fatto di palazzi istituzionali, bandiere e sale stampa. Più facile immaginarlo tra palme perfettamente potate, green immacolati e silenzi ovattati, nello scenario quasi irreale dello Shell Bay Club di Hallandale Beach, a nord di Miami.
Miami, il golf resort dei potenti: allo Shell Bay Club si discute il futuro dei conflitti globali
Un luogo dove il lusso non è ostentazione ma selezione, e dove le decisioni globali sembrano scivolare sul prato con la stessa apparente leggerezza di una pallina da golf. Questo angolo di Florida iper-esclusiva appartiene al Witkoff Group, che lo ha rilevato nel 2018 insieme alla PPG Development del magnate immobiliare Ari Pearl. Alla guida c’è Steven Witkoff, nome che non è solo sinonimo di real estate di fascia altissima, ma oggi anche di diplomazia internazionale. Non si tratta di un caso di omonimia né di un curioso intreccio di destini: è proprio lui, Steven Witkoff, il diplomatico plenipotenziario del secondo mandato trumpiano, nominato da Donald Trump – il “golfer-in-chief” – chief negotiator e incaricato di girare il mondo per tentare di ricucire crisi che vanno dalla guerra russo-ucraina a Gaza, passando per il dossier iraniano. E quando c’è da far sedere attorno a un tavolo le parti in conflitto, lo Shell Bay Club diventa il teatro ideale. Dove un tempo sorgeva il tutto sommato ordinario Diplomat Golf Resort, oggi prospera quello che viene definito senza mezzi termini “un ecosistema di lusso invitation-only”. Tradotto: un paradiso terrestre ad accesso rigidamente controllato, dove nulla è lasciato al caso e dove l’esterno resta, letteralmente, fuori dai cancelli.
Sessanta ettari affacciati sull’Intracoastal Waterway, un percorso da 18 buche disegnato da Greg Norman che si snoda per oltre 6,6 chilometri, con un par 72, uno slope rating di 148 e un course rating di 76.1. Numeri che, per gli addetti ai lavori, raccontano una verità semplice: è uno dei campi più difficili di tutta la Florida del Sud. Anche perché è l’unico campo da golf privato aperto in quell’area negli ultimi 25 anni. Per i comuni mortali, varcarne l’ingresso resta un esercizio di fantasia. Qui si entra solo su invito e con un assegno da circa 1,35 milioni di dollari per l’iscrizione, a cui si aggiungono svariate centinaia di migliaia di dollari all’anno. In cambio, niente tee time prestabiliti: i membri giocano quando vogliono, protetti da un isolamento che è parte integrante dell’esperienza. A completare l’offerta, un percorso par 3 a nove buche, un campo pratica di quasi cinque ettari acri con simulatori e putting studio. Sui green si incrociano nomi noti del golf mondiale come Patrick Reed, Bubba Watson, Henrik Stenson e Lee Westwood, tutti professionisti del LIV Golf Tour, il circuito finanziato dai petrodollari sauditi di Mohammed bin Salman e gestito, fino a poco tempo fa, proprio da Greg Norman.
Ma paradossalmente, i golfisti sono forse la presenza meno rilevante allo Shell Bay. Tra novembre e dicembre, Steven Witkoff ha accolto delegazioni ucraine guidate dal ministro della Difesa Rustem Umerov per discutere il piano di pace con la Russia. Incontri definiti “produttivi e costruttivi”, ai quali hanno preso parte anche Jared Kushner e Marco Rubio. Non solo Ucraina: lo Shell Bay Club ha ospitato vertici su Gaza con funzionari qatarioti, egiziani e turchi, seguiti da round negoziali con delegazioni russe guidate da Kirill Dmitriev. Anche colloqui su Iran e altri scenari di crisi sono passati da questi tavoli informali, dove il dress code è rilassato ma le poste in gioco sono altissime. Spesso è lo stesso Witkoff a farsi carico dei trasferimenti aerei dei suoi ospiti, un dettaglio che non ha impedito a certi ambienti statunitensi di esercitare una sottile ironia. Attorno all’ex Diplomat Golf Course, infatti, si moltiplicano strutture e resort legati a investitori russi.
Poco distante sorge Sunny Isles Beach, ribattezzata da anni “Little Moscow” per la forte presenza di immigrati dall’ex Unione Sovietica – russi, ucraini ed ebrei russi – stabilitisi nell’area a partire dagli anni Novanta. Insomma, in un’epoca segnata da conflitti sempre più intricati e da una diplomazia ufficiale spesso paralizzata, lo Shell Bay Club rilancia, senza proclami, la vecchia idea della golf diplomacy. Un modello informale, selettivo, quasi anacronistico, che però potrebbe finire per ridefinire – tra una buca e l’altra – il modo stesso in cui si costruisce la pace. Perché oggi, a quanto pare, il futuro del mondo passa anche da qui, tra il silenzio dei fairway e il fruscio delle palme.