Lo dico da tempo, e con crescente rassegnazione: qualcosa è andato storto. Ma non nel senso poetico, tipo “siamo anime smarrite in un mondo che non ci capisce”. No, proprio storto storto, tipo banana matura dimenticata nel cruscotto ad agosto. Viviamo in un’epoca in cui il pensiero critico è evaporato come la dignità in un reality show, e il livello intellettivo della società sembra inversamente proporzionale al prezzo delle sneakers o al numero di follower su TikTok.
Il culto del Labubu e l’estinzione della dignità collettiva
Il nuovo campanello d’allarme? Un pupazzo. Sì, un pupazzo. Non scherzo. Si chiama Labubu, un nome che suona come uno starnuto in una fiaba gotica, e ha conquistato l’Occidente con la potenza devastante del nulla. A Milano, in Corso Buenos Aires, centinaia di ragazzi - e, purtroppo, non solo ragazzi - si sono accampati all’alba per accaparrarsi questa creatura pelosa con espressione tra il compiaciuto e il vagamente psicopatico. Un aggeggio in tutina da coniglio che, apparentemente, fa status più di una laurea in fisica teorica.
Il Pop Mart, unico negozio in Italia a venderli, è stato preso d’assalto. Settemila ore di coda, racconti epici degni dell’assedio di Troia, e gente che torna a casa con le mani vuote ma il cuore pieno. Di cosa? Di Labubu-fame. E no: non stiamo parlando di una rivoluzione culturale, ma di un peluche concepito da un artista di Hong Kong per una multinazionale cinese dei giocattoli. Il loro valore? Diciannove euro il modello base, centosessanta per quello “grande”, ché si sa, la megalomania costa. Ma attenzione: si acquistano alla cieca, in scatola chiusa. Sorpresa! Potresti trovare il Labubu che hai già. Oppure no. E allora giù a spendere di nuovo, come nei gloriosi anni delle figurine Panini, solo con meno calcio e più vuoto esistenziale.
Come ogni droga degna di questo nome, anche il Labubu ha generato un mercato parallelo. Su Vinted e affini, le edizioni rare volano oltre i settecento euro. Alcuni lo rubano. Sì, lo rubano. E per proteggerlo, i suoi orgogliosi proprietari si sono dotati di moschettoni con password o custodie antiatomiche, come se stessero trasportando l’uranio impoverito. E se pensate che questa follia sia confinata ai confini di TikTok, vi sbagliate di grosso.
I Labubu hanno fatto capolino anche tra le mani - o meglio, appesi alle borse - di signore e signorini dello showbiz: Rihanna, Dua Lipa, Lisa delle Blackpink (ossessionata dichiarata), fino a campeggiare in versione maxi alle sfilate milanesi. Un giorno di questi ce li troveremo in Senato, come mascotte istituzionale. Ma non è solo una questione di marketing: è antropologia della decadenza. Il Labubu è l’ultimo totem in una religione dell’apparire dove nulla si salva dall’ornamento: chiavi, telefoni, computer, mutui trentennali. C'è chi cuce vestitini su misura per il proprio pupazzo, chi lo fotografa da ogni angolazione come fosse un nipotino al primo saggio di danza, chi lo appende a borse tarocche per nobilitarle, come se bastasse un peluche per elevare un accessorio made in Shenzhen a status symbol globale.
E non venitemi a dire che “è solo un gioco”. No, è una radiografia perfetta della nostra civiltà (civiltà, si fa per dire) in decomposizione. C’è chi ha fatto ore di coda sotto la pioggia per qualcosa che poteva ordinare online con due click. Ma si sa, online nessuno ti vede. Vuoi mettere il selfie in coda, con faccia sofferta e didascalia strappacuori? “Io e Labubu, 5 ore di attesa ma ne è valsa la pena”. E giù smile, cuoricini ed emoticon varie. Insomma, mentre le biblioteche si svuotano e i parchi gioco marciscono, generazioni intere si dedicano con entusiasmo sovrumano all’accumulo di pupazzi kawaii con lo sguardo torvo.
Ma attenzione: il Labubu non è solo in questo mondo di desolante vuoto: ci sono anche i Sonny Angel, quei cherubini plastificati con cappellini da ortolano. Insomma, siamo di fronte a un’orgia di personalizzazione compulsiva, dove l’oggetto non serve più a nulla se non a dimostrare che ce l’hai tu prima degli altri. In fila per l’oblio, con un pupazzetto appeso allo zaino e l’autostima infilata in una blind box. Mio personale consiglio: fate la fila, sì, ma dallo psicologo!
Magari in un elegante day hospital con seduta collettiva e pupazzi messi in quarantena. Magari se ci appendessimo un Labubu al cervello funzionerebbe meglio. Perché la verità è che il cortocircuito è completo: siamo un popolo che si commuove per un gadget, ma sbuffa davanti a un tramonto o a una mostra d’arte. Che si esalta per il nulla, ma non ha più la pazienza per ascoltare. Che ha sostituito il pensiero con la collezione. E mentre le centrali elettriche arrancano, la sanità crolla e il pianeta chiede aiuto, noi stiamo qui, appesi a un pupazzo. E il problema non è che siamo alla frutta. È che stiamo facendo la fila per mangiarla in plastica.