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L’illusione digitale e la resa del giornalismo alla seduzione dell’irreale

Barbara Leone
 
L’illusione digitale e la resa del giornalismo alla seduzione dell’irreale

FOTO: Instagram - @slump_guac

C’è un punto, impercettibile, ma ineluttabile, in cui l’etica del racconto si spezza. Non è soltanto il confine tra cronaca e spettacolo, tra verità e finzione: è la frattura intima che si apre quando la voce che racconta non appartiene più a un essere umano, ma a un algoritmo che ne imita il respiro.

L’illusione digitale e la resa del giornalismo alla seduzione dell’irreale

The Guardian ha recentemente riportato una vicenda che, al di là del suo nucleo emotivo, rivela quanto il giornalismo contemporaneo rischi di abdicare alla propria missione sull’altare dell’innovazione tecnologica.
Joaquin Oliver aveva diciassette anni quando fu ucciso nella sparatoria di Parkland, in Florida, che causò la morte di diciassette persone e il ferimento di molte altre.

Un ragazzo, una vita interrotta da un colpo di fucile, il 14 febbraio di sette anni fa. Oggi, la sua “voce” è tornata a parlare: non in un ricordo, non in un archivio, ma in un’intervista condotta dall’ex corrispondente della CNN, Jim Acosta, con un avatar di intelligenza artificiale addestrato a replicare il linguaggio e il tono del giovane, ricostruito attraverso i frammenti digitali che lui stesso aveva disseminato sui social.

L’intento dei genitori di Joaquin, impegnati in una battaglia per un controllo più severo sulle armi, è comprensibile e umano: dare nuova risonanza alla storia del figlio, portare la sua testimonianza là dove il dolore reale non è bastato a smuovere le coscienze politiche. Ma il mezzo scelto trascina la vicenda su un terreno scivoloso, dove il lutto diventa materia modellabile e la voce dei morti rischia di essere piegata a logiche che non appartengono più né alla memoria né alla verità. Non è la prima volta che chi sopravvive si aggrappa a tracce sonore o visive dei propri cari: cassette consumate di messaggi d’addio, chat mai cancellate, abiti conservati come reliquie.

La tecnologia ha sempre offerto strumenti per custodire il ricordo, ma oggi si spinge oltre: promette la resurrezione simulata, la possibilità di “parlare” ancora con chi non c’è più. E in questo superamento del limite naturale si insinua un rischio nuovo: la trasformazione del dolore in un prodotto, di chi non può più difendersi in un’interfaccia da gestire, programmare, persino monetizzare. Nel caso di Joaquin, i genitori dichiarano di sapere bene che non si tratta del figlio, ma di un’estensione virtuale della loro campagna.

Eppure l’idea di concedere a quell’avatar un proprio spazio social, con video e follower, apre interrogativi inquietanti: cosa accadrebbe se l’IA iniziasse a pronunciare frasi che il vero Joaquin non avrebbe mai detto? Quanto sarebbe labile, per l’opinione pubblica, la linea tra testimonianza e finzione? Il nodo, però, non è solo tecnologico. È giornalistico. Perché accettare di intervistare un’entità che non esiste, di attribuirle parole e intenzioni, significa minare alle fondamenta l’idea stessa di testimonianza. Significa aggiungere opacità a un mondo già saturato di post-verità, offrendo ai negazionisti e ai complottisti un’arma ulteriore: la possibilità di bollare come “falso” qualsiasi racconto scomodo, insinuando che dietro ogni voce ci sia una macchina.

Il giornalismo, in questa deriva, rischia di diventare complice inconsapevole di una spettacolarizzazione che nulla ha a che fare con il dovere di informare. Un mestiere nato per dare volto e parola agli esseri umani rischia di smarrire la propria ragion d’essere, sedotto dall’eccezionalità tecnica più che dalla verità dei fatti. Forse, come società, ci abitueremo alla presenza di repliche sintetiche di noi stessi: compagni digitali per chi è solo, simulacri di amici che non ci sono più. Ma tra la generica compagnia di un algoritmo e la rianimazione artificiale di un morto c’è un abisso morale che non si può colmare con la sola giustificazione del progresso.

La Bibbia, nei versi letti ai funerali, ricorda che “c’è un tempo per nascere e un tempo per morire”. Cancellare questa certezza significa alterare l’ordine stesso della vita, trasformando il silenzio della morte in una replica artificiale infinita. È il punto di non ritorno. Il varco irreversibile in cui l’uomo rinuncia a se stesso e il giornalismo alla sua ragione più alta: la verità.

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