L’Italia descritta dal 59º Rapporto Censis è un Paese entrato nell’“età selvaggia”, un tempo di ferro e di fuoco in cui le pulsioni profonde superano la razionalità economica, le certezze politiche si sgretolano e il mondo appare governato più dalla forza che dal diritto. Non è un semplice cambio d’epoca, ma un ribaltamento di paradigmi. Guerre, nazionalismi, protezionismi, fanatismi ideologici e identitari non si spiegano con la sola logica dei mercati. A muovere la storia, oggi, sono paure ancestrali e tensioni messianiche.
Italia, il Paese nell’età selvaggia che non rinuncia alla speranza
Un clima che modifica anche la percezione degli italiani, con il 62% che ritiene irrilevante il ruolo dell’Unione europea nello scacchiere internazionale, il 53% che la vede destinata alla marginalità e il 55% che pensa che il progresso si sia spostato in Asia, verso Cina e India. Addirittura il 30% arriva a condividere un assunto impensabile solo pochi anni fa, e cioè che le autocrazie sarebbero più adatte allo spirito dei tempi.
Intanto il Paese convive con la pressione del Grande Debito, simbolo della mutazione degli Stati occidentali da Stati fiscali a Stati debitori. Nel G7 il rapporto debito/Pil è passato dal 75,1% del 2001 al 124% del 2024, e in Italia ha raggiunto il 134,9%, destinato a superare il 137% entro il 2030. La spesa per interessi, 85,6 miliardi, supera quella per gli investimenti pubblici e vale oltre dieci volte il budget per la protezione dell’ambiente. È il segno dell’avvio del secolo post-welfare: risorse sempre più assorbite dal debito, spazi ridotti per crescita e coesione sociale. Non stupisce che per l’81% degli italiani sia indispensabile colpire fiscalmente i giganti del web.
A complicare la scena è la febbre del ceto medio, che vede incrinarsi i pilastri della sua storica stabilità, piccole imprese e lavoro. In vent’anni i titolari d’impresa sono diminuiti del 17%, i giovani imprenditori del 46%. Le retribuzioni reali sono ancora inferiori dell’8,7% rispetto al 2007, il potere d’acquisto è sceso del 6,1%. Un ceto che arranca, teme di perdere lo status conquistato e fatica a difendersi dall’aumento dei prezzi. Dal 2019 al 2024 il costo del carrello della spesa è cresciuto del 23% a fronte di consumi effettivi in calo.
Parallelamente, il rapporto tra cittadini e politica si è fatto rarefatto. Il 72% non crede più a partiti e leader, il 63% lamenta l’assenza di un sogno collettivo, e lo spettro astensionistico diventa parte della nuova normalità, alle europee 2024 ha votato meno della metà degli aventi diritto. Ma nonostante la sfiducia, gli italiani non coltivano pulsioni radicali. Il 66% rifiuterebbe il riarmo se ciò implicasse tagli al welfare e il 47% non immagina per il Paese divisioni simili a quelle statunitensi.
Sul fronte industriale, il Paese vive un “lungo autunno”, trentadue mesi consecutivi di dati negativi per la produzione, con il rischio concreto di un inverno di deindustrializzazione. I settori tradizionali arretrano, dal tessile (-11,8%) ai mezzi di trasporto (-10,6%), mentre l’unico vero anticorpo è il riarmo, infatti la fabbricazione di armi cresce del 31% nei primi nove mesi dell’anno.
Anche il mercato del lavoro cambia volto, con l’occupazione che cresce quasi esclusivamente grazie agli over 50. Nel 2023-2024 l’84,5% dei nuovi occupati appartiene a questa fascia, mentre i giovani scompaiono: -109.000 under 35 nei primi dieci mesi del 2025 e +176.000 inattivi. La produttività cala, l’economia invecchia.
Eppure, pur nell’incertezza demografica, con gli over 65 al 24,7% e i centenari saliti a 23.548, il Paese non scivola nell’apatia. Gli italiani non prendono alloggio al “Grand Hotel Abisso”, come scrive il Censis citando Lukács. Non si abbandonano al gusto della fine, non celebrano la resa. Anzi, mantengono un sorprendente attaccamento alla vita, al piacere, al presente.
La vita sessuale è intensa, diffusa, vissuta senza tabù. Il 62,5% delle persone tra i 18 e i 60 anni ha rapporti con cadenza settimanale, e tra i giovani under 35 la percentuale sale al 72,4%. Un edonismo che non è fuga dal mondo, ma forma di resistenza antropologica, un modo per riaffermare vitalità contro lo spettro dell’inverno demografico e industriale.
Sul piano sociale, l’Italia ridefinisce anche la sua geografia interna, cresce nelle città intermedie del Nord-Est, avanza nei territori attrattivi per lavoro e presenza di stranieri, mentre undici aree metropolitane perdono residenti. Intanto l’immigrazione, pur essendo una risorsa indispensabile per colmare il vuoto demografico, resta oggetto di diffidenza, il 63% vuole limitarla, il 54% teme un impatto sulla cultura nazionale, solo il 38% concederebbe il voto amministrativo agli stranieri.
Nel grande paradosso italiano, però, la cultura vive un doppio destino: i consumi culturali delle famiglie crollano (-34,6% in vent’anni), ma la domanda esperienziale cresce. I visitatori stranieri affollano città d’arte e musei, la spesa culturale turistica raggiunge il 56,4% del totale, segno che la cultura, quando diventa esperienza, resta un motore identitario potente.
Siamo un Paese nel pieno di una tempesta antropologica, economica e politica, ma ancora capace di reagire, di interpretare il presente senza cedere alla retorica dell’apocalisse.
I barbari possono essere alle porte, ma l’Italia, scrive il Censis, non si arrende: “l’apocalisse può attendere”.