La notizia, cruda e senza filtri: fino a pochi giorni fa su Facebook esisteva un gruppo pubblico chiamato “Mia Moglie”. Oltre trentaduemila iscritti. Non quattro deficienti sparsi: trentaduemila, come l’intera popolazione di una città come Fiuggi o Alba Adriatica. Oltre trentaduemila uomini, soprattutto mariti, che caricavano foto delle proprie compagne a loro insaputa per innescare il rito della masturbazione collettiva: commenti, “recensioni” delle varie parti del corpo, fantasie esplicite finanche di stupri di gruppo.
“Mia Moglie”: quando il branco si nutre di casa tua
Scatti intimi sottratti alla fiducia coniugale, ma anche immagini apparentemente innocue: una donna in tuta sul divano, ai fornelli, a riordinare, colta in gesti quotidiani e trasformata in carne da macello perché un pigiama scivola, un lembo di pelle si intravede.
Spesso i profili che postavano erano anonimi; quasi sempre i volti delle donne non si vedevano. Dettaglio che, per qualcuno, pare basti a lavare la coscienza. Dopo migliaia di segnalazioni, Meta ha comunicato di aver rimosso il gruppo per violazione delle regole contro lo sfruttamento sessuale degli adulti, ricordando che contenuti che incitano o sostengono violenza sessuale possono portare alla disattivazione di gruppi e account e alla segnalazione alle autorità.
Bene, ma non benissimo. Perché chiamarla violazione della policy aziendale è come descrivere un incendio dicendo che si è scaldato l’ambiente: tecnicamente vero, moralmente irricevibile.
Il punto non è il sesso. Il punto è il consenso, che qui non esiste. E non scompare in un club per scambisti con regole chiare: evapora nel matrimonio, dentro quel perimetro che dovrebbe essere il più sicuro.
“Mia Moglie”, e già il nome è una confessione, è possesso travestito da affetto. Non “mia compagna”, non “la persona che amo”. “Mia” da esibire, da valutare, da lanciare in pasto al branco per guadagnarsi una manciata di approvazioni. Chi fornisce le foto vende l’intimità condivisa in cambio di applausi virtuali. E chi commenta toglie umanità: non servono nome, voce, storia.
Bastano tette, culo e tutto il resto che manco voglio nominare. E a corredo arrivano pure i fazzoletti sporchi, non certo di salsa al pomodoro, esibiti come trofei: l’alfabeto dell’umiliazione. A chi protesta che “tanto i volti non si vedono”, rispondo con l’unica domanda onesta: se fosse tuo il corpo derubato dell’intimità, ti basterebbe non riconoscerti in faccia per sentirti al sicuro? No: perché il danno è già stato fatto, l’intimità profanata resta, e nessun anonimato può cancellare la violenza subita.
Non è teoria. Gisèle Pelicot - nome che molti preferiscono dimenticare - è una donna francese che per dieci anni è stata addormentata, violata, filmata da decine di uomini, con la complicità del marito. C’era organizzazione, c’era logistica, c’era routine. Per molti, ancora oggi, approfittare di un corpo incosciente non è stupro. Figuriamoci se può sembrare grave condividere un pezzo di corpo senza volto.
La radice è la stessa: la donna ridotta a merce, a oggetto di proprietà. Lo scrivo una volta sola, perché basta: qui non vedo uomini, vedo maschi. L’uomo riconosce confini, responsabilità, reciprocità. Il maschio confonde l’amore con un diritto d’uso. L’uomo protegge l’intimità; il maschio la monetizza in approvazioni. Se vi sentite chiamati fuori, non difendetevi con un “io non sono così”: dimostratelo. Denunciate chi lo è. Qualcuno dirà: “Ma esistono gruppi femminili che prendono in giro i mariti!”.
Sì, uno su tutti: “Io e il mio cazzo di marito”, dove si ironizza sui calzini in giro, gli anniversari dimenticati, i mariti assenti. Non è il mio umorismo preferito, ma parliamo di sfogo, non di mercificazione del corpo. Nessun pene o culo in vetrina, nessuna richiesta di “raccontatemi cosa gli fareste”. Non confondiamo i piani per lavarci la coscienza.
E ora, chiuso “Mia Moglie”? Non illudiamoci: non è finita. Centinaia di cloni girano tra chat criptate e deep web. Cambiano nickname, cambia la piattaforma, ma il rito resta lo stesso: mariti, compagni, fidanzati – magari gli stessi che il 25 novembre postano scarpette rosse - pronti a umiliare, esporre, consegnare la propria donna al branco. Li vedi sorridere al supermercato, in ufficio, a cena con i figli. Poi aprono il telefono e lanciano la donna con cui dividono la vita e il letto nel frullatore digitale. Pollice, condividi, via.
Non servono prediche. Serve una presa di posizione netta, e sono gli uomini, quelli veri, a dover alzare un muro morale invisibile, fatto di disprezzo e ostracismo. Perché chi oltraggia la fiducia e l’intimità della propria compagna o madre dei figli deve sentire lo schiaffo in faccia: non è più parte del mondo civile. Fino a quando non lo capiremo, questi maschi continueranno a distruggere vite in silenzio. E ogni volta che scrolliamo, ridiamo o tacciamo, diventiamo complici. Branco, in un certo senso, anche noi.