"Quando era passato un anno dal mio arrivo nel campo, cominciammo a sentire da lontano rumore di cannonate e di bombardamenti: qualche cosa stava succedendo. Ed ecco che dalla fabbrica Union arrivò il comando di evacuare il campo. E, così come eravamo, ci fecero alzare da quei banchi, dove lavoravamo per fare proiettili e munizioni, e venimmo avviate per quella che sarebbe stata chiamata la 'marcia della morte".
Con queste parole, Liliana Segre rievoca uno dei momenti più drammatici della sua prigionia ad Auschwitz, un istante che anticipava il crollo imminente del regime nazista e la liberazione del campo.
Giornata della Memoria, la liberazione di Auschwitz: l’inferno in Terra
Il 17 gennaio 1945, mentre l’Armata Rossa inesorabilmente si avvicinava, le SS organizzarono l’evacuazione di Auschwitz. In un clima di fretta e panico, si tenne così l’ultimo appello generale dei prigionieri. Era l’inizio di un’odissea disumana: la marcia della morte. Circa 60.000 persone furono costrette a lasciare il campo in condizioni estreme, dirette verso altri lager ancora sotto il controllo del Reich.
"Io, quando cominciai a capire che dovevo camminare, comandai al mio corpo: 'Una gamba davanti all’altra! Devi andare avanti, devi andare avanti…'. Camminammo per giorni attraverso la Germania, camminavamo soprattutto di notte: città deserte, paesini deserti e le nostre sentinelle implacabili finivano con un colpo di pistola quelle che cadevano", racconta Segre. Le marce procedevano in due diverse direzioni: verso nord-ovest, fino a Gliwice, per 55 chilometri lungo i quali venivano raccolti anche i prigionieri dei sottocampi dell’Alta Slesia Orientale. E verso ovest, per circa 60 chilometri, in direzione di Wodzislaw. Durante il cammino, le SS spararono a chiunque cedesse e non fosse più in grado di proseguire: in quindicimila morirono. Chi sopravviveva veniva invece caricato su treni merci e portato nei campi di concentramento in Germania. Ovviamente le marce della morte non erano solo un mezzo per spostare i prigionieri, ma parte della strategia di annientamento degli ebrei perpetrata dalla macchina genocida nazista.
Il cui acme è rappresentato dalla conferenza di Wannsee, che ebbe luogo il 20 gennaio 1942 in una villa del sobborgo berlinese. Qui, quindici tra i maggiori funzionari del governo tedesco del Reich e del Partito Nazista si riunirono per definire le modalità pratiche della "Soluzione finale alla questione ebraica". A convocare la conferenza fu il generale delle SS Reinhard Heydrich. Oltre a lui parteciparono Meyer, Leibbrandt, Stuckart, Buhler, Freisler, Kritzinger, Neumann, Muller, Hoffmann, Schongarth, Klopfer, Lange e Luther.
Il tema in discussione non era se procedere o meno allo sterminio degli ebrei: questa decisione era già stata presa da Adolf Hitler mesi prima. L'obiettivo era, invece, organizzare l'eliminazione fisica sistematica sistematico di circa 11 milioni di ebrei, un numero che comprendeva non solo quelli presenti nei territori occupati, ma anche quelli di Paesi neutrali come Svizzera, Svezia e Portogallo, e persino del Regno Unito.
Il verbale della conferenza, noto come protocollo di Wannsee che fu redatto da Adolf Eichmann, utilizza un linguaggio criptico per nascondere la natura genocida delle decisioni prese. Espressioni come "evacuazione verso est" o "trattamento speciale" mascheravano l'intento di sterminio, rivelando l’ipocrisia di un regime che cercava di occultare i propri crimini dietro formule burocratiche.
Allo stesso tempo, questa scelta linguistica evidenzia quanto il genocidio fosse un elemento premeditato e integrato nella macchina amministrativa dello Stato nazista. Unico tema su cui si discussero diverse opzioni senza raggiungere un accordo definitivo fu il trattamento dei "mischlinge", ovvero gli individui con ascendenze ebraiche parziali. Per loro furono prospettate soluzioni come la sterilizzazione di massa o la deportazione, ma non si giunse a una decisione univoca. Questo dettaglio evidenzia la meticolosità e la freddezza con cui i nazisti pianificarono ogni aspetto della "soluzione finale": anche i più piccoli dettagli dovevano essere stabiliti per garantire che nulla ostacolasse l’esecuzione di uno dei crimini più terribili della storia.
La liberazione di Auschwitz ebbe inizio, dal punto di vista militare, nell'estate del 1944, quando l’avanzata sovietica portò l’Armata Rossa fino alla Vistola, a circa 200 chilometri dal campo di concentramento. Nei primi giorni del 1945, con l’avvio dell’Operazione Vistola-Oder, l’offensiva sovietica puntò verso il cuore della Germania, obbligando i vertici nazisti a decidere lo smantellamento del lager. Già nel luglio del 1944, le forze sovietiche avevano preso il controllo del campo di Majdanek, vicino a Lublino, in Polonia, e nei mesi successivi liberarono le aree in cui si trovavano i campi di sterminio di Bełżec, Sobibór e Treblinka, smantellati dai nazisti prima del loro arrivo.
Nel frattempo, i tedeschi tentavano di cancellare le tracce dei loro crimini anche ad Auschwitz. Nel novembre del 1944, il ministro dell’Interno nazista Heinrich Himmler, il capo delle SS, ordinò di distruggere le camere a gas di Birkenau rimaste ancora in funzione. Ma non quelle di Auschwitz. Il 27 gennaio, quando verso mezzogiorno le prime truppe sovietiche del generale Kurockin entrarono ad Auschwitz, trovarono circa settemila prigionieri che erano stati lasciati nel campo. Molti erano bambini e una cinquantina di loro aveva meno di otto anni: sopravvissuti perché usati come cavie per la ricerca medica. I sovietici trovarono anche cumuli di vestiti e tonnellate di capelli pronti per essere venduti. E poi occhiali, valigie, utensili da cucina e scarpe: oltre centomila, tutte custodite insieme al resto presso il museo di Auschwitz.
Una liberazione che, come Primo Levi non si stancò mai di sottolineare, non ebbe nulla di gioioso. Chi non era troppo malato o denutrito per comprendere cosa stesse accadendo provò un turbinio di emozioni contrastanti: la consapevolezza dell’immane offesa subita, il senso di vergogna per essere sopravvissuti quando altri non ce l’avevano fatta, e il peso del rimorso per le azioni immorali compiute o per le omissioni di soccorso verso compagni in difficoltà.
Per altri, invece, l’esperienza del lager aveva inflitto ferite irreparabili: deliri, follia o un mutismo assoluto segnavano chi era stato completamente devastato da quella realtà disumana. In tutti i sopravvissuti, senza eccezione, il lager aveva lasciato cicatrici profonde, destinate a rimanere indelebili per il resto della vita. "Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti", scrive Levi ne "I sommersi e i salvati". Mentre nel primo capitolo de "La tregua", intitolato "Il disgelo", racconta così l’arrivo dei soldati russi al lager di Monowitz: "La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo. Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. (…) Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. (…) Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che non pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti. A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi".
In meno di cinque anni Auschwitz, la fabbrica della morte, inghiottì oltre un milione di vite. Il 90% delle vittime erano ebrei, ma insieme a loro finirono in quel girone infernale anche polacchi, russi, Rom, Sinti, omosessuali e testimoni di Geova: tutti schiacciati dalla spietata macchina di sterminio nazista. Questo complesso, situato nei dintorni di Oświęcim (ribattezzata Auschwitz dai tedeschi), nel sud della Polonia, non era un unico campo, ma un sistema di terrore articolato. Accanto al primo nucleo, Auschwitz I, sorgeva Birkenau (Auschwitz II), il cuore oscuro della strage, il luogo dove le camere a gas operavano senza sosta. Poco distante si trovava Monowitz (Auschwitz III), un campo di lavoro forzato in cui i prigionieri erano sfruttati fino allo stremo per alimentare l’economia di guerra del Reich, lavorando per industrie tedesche come Siemens e IG Farben.
Altri 45 sottocampi si estendevano intorno, una ragnatela di dolore e sfruttamento. I deportati arrivavano da ogni angolo d’Europa. Alla loro discesa dai convogli, una selezione crudele decideva il destino: solo il 25% era ritenuto “abile al lavoro”; il restante 75%, composto da donne, anziani e bambini, veniva inviato direttamente alle camere a gas.
Lì, i "sonderkommando" – prigionieri obbligati a collaborare con le SS per avere qualche giorno di vita in più – si occupavano delle operazioni nei forni crematori. Primo Levi li definì "i corvi neri del crematorio". Alcuni di loro, come Shlomo Venezia e Marcel Nadjari, hanno svelato gli orrori consumati nei campi: madri strette ai loro neonati mentre affrontavano la morte, corpi trascinati e bruciati senza tregua. Nadjari nascose le sue memorie sotto terra, dove furono ritrovate e decifrate solo nel 2017, rivelando dettagli atroci di un genocidio sistematico.
Chi era risparmiato dalle camere a gas sopravviveva in condizioni disumane. Divisi per genere, i prigionieri erano stipati in baracche sovraffollate, costretti a dormire su letti a castello in legno, con poco cibo e un’aspettativa di vita che raramente superava i sei mesi. Ogni aspetto della loro esistenza era regolato dalle SS, guidate ad Auschwitz da Rudolph Höss, sotto gli ordini diretti di Hitler, Himmler ed Eichmann. Al fianco delle SS agiva anche un sinistro gruppo di "medici", tra cui Josef Mengele: il famigerato "Angelo della morte", responsabile di esperimenti inumani su donne e bambini, che riuscì a sfuggire alla giustizia trovando rifugio in Sud America, senza mai pagare per i suoi crimini.
Alcuni deportati venivano costretti a svolgere mansioni specifiche: Jozef Paczynski fu obbligato a diventare il barbiere personale di Höss, mentre Lale Sokolov fu selezionato come tatuatore ufficiale di Auschwitz, marchiando le braccia di migliaia di prigionieri. Wilhelm Brasse, un polacco arrestato per essersi rifiutato di arruolarsi nella Wehrmacht, fu "promosso" fotografo del campo. Prima di lasciare Auschwitz, Brasse riuscì a nascondere le sue pellicole, che vennero ritrovate nel 1945 dall’Armata Rossa diventando così testimonianza viva, in mezzo a tutta quella morte, della disumana barbarie nazista. E così, pian piano, il mondo cominciò a conoscere l’orrore della Shoah. I superstiti, ridotti a scheletri, portavano impresse sul corpo e nell’anima le cicatrici di una sofferenza che, per quanto raccontata in ottant’anni in ogni forma, resta inenarrabile. Una sofferenza che non si può e non si deve dimenticare, per far sì che la Storia sia veramente e concretamente la via maestra per il nostro oggi e per il nostro domani.