Un tempo si chiamava decoro. E si chiamava silenzio, quel luogo rarefatto e sacro dove il dolore trovava riparo, come una candela tremante al riparo dal vento, lontano dal clamore, al riparo da ogni flash. Poi sono arrivati loro: lo smartphone, i social, i reel, i filtri, i like, i “cuoricini”, e tutto quel corredo digitale che trasforma anche un lutto in un’occasione di storytelling. E così quando la notizia della morte di Papa Francesco ha attraversato il mondo in meno di un respiro è atterrata, prevedibilmente e inesorabilmente, sulle bacheche social, dove il dolore diventa contenuto e il cordoglio si misura in engagement.
Lutto 2.0: quando il cordoglio è a favore di algoritmo
E via, una pioggia di fotografie: tutti a pubblicare l'immagine perfetta in cui il Pontefice sorride loro, a volte davvero a volte con l’espressione stanca di chi sta sopportando l’ennesimo assalto di devoti in cerca di benedizione e visibilità. Ma chi siamo noi per giudicare? In fondo, chi non ha mai cercato il proprio momento di gloria spirituale, rigorosamente immortalato in formato quadrato con filtro “Amaro”? La scena è quasi teatrale, tragicomica nella sua universalità: il Papa che avanza tra la folla e loro che, con l’agilità di un predatore da calzatura griffata, si fiondano tra le pieghe della massa per carpire quel secondo eterno, quella stretta di mano sudata, quel fotogramma da incorniciare sui social con caption ispirate tipo: “Francesco, io ti ho conosciuto”. Conosciuto, sì. Così come si conosce il barista sotto casa: buongiorno, due caffè e un amen, grazie.
Ma la vera apoteosi del cattivo gusto, un gusto che pare sempre più cucinato in cucine senza chef, è arrivata con la trasformazione dell’omaggio alla camera ardente allestita a San Pietro in passerella. E’ qui che il lutto diventa evento, la morte uno sfondo per i selfie. Lì, accanto alla bara. Letteralmente. Con tanto di didascalia emotiva: “Ciao Papà Papa Francesco R.i.p” (con tanto di “Papà” che induce a chiedersi se non sia un refuso freudiano). Gente comune in pieno delirio da social, ma anche volti noti. Come Nathaly Caldonazzo, che ha pensato bene di offrire al web una visione ravvicinata della salma del Pontefice, come se fosse un cameo in un reality esistenziale. I commenti, fortunatamente, non si sono fatti attendere. “Fotografate anche i morti per un po’ di like. Pena!” scrive un’utente, toccando con una sola frase l’osceno epicentro del problema. Già, perché in questo teatro digitale il dolore non è più un’esperienza interiore, ma un contenuto da confezionare, impacchettare e pubblicare prima che sfugga l’hype. È il lutto come atto performativo. La morte come occasione virale.
Ma non fermiamoci alla Caldonazzo, sarebbe troppo facile. Perché il vero male è culturale. È la mutazione antropologica dell’umano in avatar che piange col filtro “Valencia”, che prega digitando in caps lock, che commemora con lo smartphone in una mano e il cuore, forse, dimenticato nell’altra. E non parliamo più solo dei cosiddetti “vippppsss”, che del confondere visibilità e sacralità hanno fatto mestiere; no, la follia è trasversale. È l’anziano signore che si scatta un selfie davanti alla bara per poi mostrare ai nipoti che “ci sono stato”, come fosse il Colosseo. È la signora in tailleur che apre Facebook nel mezzo del rosario per controllare i commenti: “Chissà se l’ha visto anche la signora Carla, quella che a Natale non mi saluta mai...”.
In questa pantomima della pietas, ciò che davvero muore è la compostezza. E con essa, la possibilità di una riflessione profonda. Perché una fotografia con il Papa, vivo o defunto che sia, non equivale a comprenderne il messaggio. E vien da chiedersi, come un monito che risuona invano nelle navate digitali: quanti, tra coloro che si sono immortalati in questo lutto-spettacolo, hanno davvero ascoltato le parole di Francesco, ne hanno colto l’invito alla sobrietà, alla tenerezza, al silenzio che parla più di mille stories? Forse è tutto qui il paradosso del nostro tempo: viviamo nella società che fotografa la morte ma dimentica il morente. Che piange in pubblico e ride in privato. Che trasforma ogni evento, anche il più tragico e doloroso, in un’occasione di engagement. E così, mentre la bara del Pontefice viene lentamente chiusa, il vero funerale si celebra altrove: quello del pudore, della misura, del buon senso. E allora ci resta solo una speranza: che un giorno, non troppo lontano, il buon gusto possa risorgere. Magari in silenzio. Magari senza post.