Lo sapevamo tutti, anche se molti hanno fatto finta di non saperlo. Perché sapevamo tutti che la liberazione di Cecilia Sala, che era prioritaria per il Paese intero, avrebbe avuto un prezzo che l'Italia doveva pagare, inghiottendo la sensazione di essere stata vittima di un ricatto che non aveva alternativa che non cedere. La liberazione di Mohammad Abedini, l'ingegnere iraniano arrestato dalle autorità italiane su richiesta di quelle americane, era in conto.
Giustizia: la liberazione di Adebini una storia dalla sceneggiatura già scritta
Ma il modo con cui è stata decisa deve fare riflettere, perché se ha risolto il problema contingente - tutti dobbiamo essere contenti che la giornalista è tornata a casa - , non ha certo cancellato, con la felicità, la certezza di essere stati presi per il collo da un altro Stato che usa la reclusione di occidentali come moneta di scambio, come ostaggi da utilizzare per risposta o da mettere in galera, a futura memoria.
Il ricatto c'è stato: possiamo chiamarlo in modi diversi, ma in altre circostanze il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, avrebbe aspettato la decisione della magistratura milanese in merito alla richiesta di estrazione da parte degli Stati Uniti. Ma, forse nel timore che la corte d'appello l'accogliesse, ha anticipato i tempi, curandosi lui di redigere la ''carta'' che ha ridato la libertà ad Abedini. Un evento così ''inatteso'' che l'ingegnere, dal carcere di Opera, è stato trasferito in aeroporto e, da lì, in Iran, senza forse nemmeno il tempo di cambiarsi d'abito.
Per Nordio (e quindi anche per il Governo) , sulla base del trattato che regola l'estradizione tra Italia e Stati Uniti, esso può essere applicato solo nel caso di ''reati punibili secondo le leggi di entrambe le parti contraenti, condizione che, allo stato degli atti, non può ritenersi sussistente''.
Il ministero di via Arenula, quindi, ha spiegato che l'accusa ad Abedini di ''associazione a delinquere per violare l’Ieepa'' (che consente agli Stati Uniti di tutelarsi, in termini di sicurezza, anche al di fuori del loro territorio) non trova corrispondenza nell'ordinamento penale italiano.
E si qui è questione delicata, sebbene discutibile, perché di operazioni ''nere'' in Italia su richiesta americana qualcuna (anche molto imbarazzante) c'è stata. Ma andiamo avanti, perché nella nota del ministero si legge testualmente che, in ordine alle diverse accusa di associazione per delinquere, ''nessun elemento risulta ad oggi addotto a fondamento delle accuse rivolte emergendo con certezza unicamente lo svolgimento, attraverso società a lui riconducibili, di attività di produzione e commercio con il proprio Paese di strumenti tecnologici avente potenziali, ma non esclusive, applicazioni militari''.
Bene, ma, ci chiediamo, perché queste conclusioni sono state tratte dal Guardasigilli e non invece dal giudice di merito, la corte d'appello di Milano, che, in questo modo, ha visto negata la sua responsabilità nella decisione, con il suo depotenziamento ''manu politici'' privandola della possibilità di valutare compiutamente il materiale sul quale gli americani hanno richiesto l'estradizione di Abedini.
Ma lontano da noi lo scandalizzarsi per l'accaduto, non fosse altro che oggi Cecilia Sala è stata restituita alla normalità della sua vita e alla sua professione, sempre che riesca presto a pigiare sul tasto reset.
A Carlo Nordio è toccato un compito ingrato, da ex magistrato sicuramente, perché il suo gesto eminentemente politico ha avuto come effetto l'avere privato i giudici di Milano di una decisione che avrebbe potuto anche essere in linea con quella del ministro, ma forse no.
Un rischio troppo grosso, da non correre, anche a costo di perdere la faccia. E nelle stesse ore in cui Abedini volava felice e contento verso la sua patria, che in quattro quattr'otto lo ha riportato a casa, dall'Iran giungevano, sia pure passando per gli spessi muri delle carceri, gli appelli di altri occidentali, detenuti da anni, senza colpa alcuna se non quello di essere appunto possibili pedine del grande gioco della diplomazia.
L'ultimo a fare sentire la sua voce è stato Olivier Grondeau, un francese detenuto in Iran da più di due anni, che oggi ha deciso di uscire dall'anonimato della sua cella, dicendo, in un messaggio, della sua stanchezza e di altri due suoi connazionali. Grondeau è stato arrestato nell'ottobre del 2022 a Shiraz, dove si era recato inseguendo il suo amore per la poesia, L'accusa contro di lui è di complotto contro la Repubblica islamica.
Cinque anni la condanna. Il suo messaggio, il suo grido di dolore è stato portato in Francia dalla madre, anche perché le sue condizioni di salute stanno peggiorando. Come lui altri due francesi patiscono la detenzione in Iran, anche loro dal 2022: Cécile Kohler e Jacques Paris, anch'essi detenuti in Iran dal 2022. Ma qualche notizia positiva arriva, come il rilascio e il rimpatrio della tedesco-iraniana Nahid Taghavi, arrestata nell'ottobre 2020 a Teheran, con l'accusa di appartenere a un gruppo di dissidenti al regime.