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Attacchi USA sui siti nucleari iraniani, gli effetti sui mercati finanziari

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Attacchi USA sui siti nucleari iraniani, gli effetti sui mercati finanziari
Sebbene il vero impatto degli attacchi statunitensi sugli impianti nucleari iraniani rimanga incerto, i mercati hanno finora reagito con cautela. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che gli attacchi probabilmente accresceranno l'incertezza economica e aumenteranno la pressione sui prezzi del petrolio

Domenica mattina, il conflitto in Medio Oriente si è ulteriormente intensificato con il bombardamento statunitense di tre impianti nucleari in Iran. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha definito gli attacchi "un grande successo" e il Segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth ha affermato che gli Stati Uniti hanno "distrutto" gli impianti. D’altro canto, l'Iran ha fatto sapere di aver riportato solo danni limitati. Questo ci lascia con la fin troppo familiare sensazione di capirne meno di quanto pensassimo.

Oltre all'incertezza sull'impatto immediato degli attacchi statunitensi, anche le conseguenze a lungo termine sono poco chiare al momento. Nelle ultime 24 ore, la reazione militare dell'Iran è stata limitata, alimentando la narrazione secondo cui Teheran non ha o non vuole usare mezzi militari per reagire. Inoltre, l'attacco statunitense non dovrebbe (ancora) essere visto come un'azione "sul campo" da parte del presidente Trump. Sembra piuttosto che i bombardamenti siano stati una "missione una tantum" degli Stati Uniti, forse paragonabile all'assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani da parte di Trump nel 2020. Non dimentichiamo che il diritto di dichiarare guerra spetta al Congresso e non allo Studio Ovale. E comunque è improbabile che in questo momento Trump voglia dichiarare guerra, soprattutto perché è stato eletto in parte con l'obiettivo di ridurre il coinvolgimento degli Stati Uniti nelle guerre globali. Se questo approccio sia sostenibile e realistico è un'altra questione.

I mercati finanziari sono attualmente in attesa della risposta dell'Iran. Sembrano esserci quattro opzioni principali: un'escalation completa, che potrebbe coinvolgere altre nazioni come la Cina o la Russia; il blocco dello Stretto di Hormuz; il supporto attivo o passivo ad attacchi terroristici negli Stati Uniti e in Europa; o, in alternativa, l'assenza di una reazione. Ci asterremo dal fare speculazioni sui prossimi passi e concluderemo invece che le conseguenze economiche più probabili degli attacchi statunitensi riguarderanno l'incertezza generale e il prezzo del petrolio.

Impatto sul mercato petrolifero

A seguito degli eventi recenti, il più grave tra gli scenari che avevamo previsto è diventato più probabile: l’interruzione del trasporto marittimo attraverso lo Stretto di Hormuz, un tratto di mare tra Iran e penisola arabica cruciale per i flussi globali di petrolio e GNL, con un quarto del commercio petrolifero via mare che transita attraverso lo Stretto. Inoltre, dallo Stretto di Hormuz passa circa il 20% del commercio globale di GNL.

E anche se sembra esserci margine per deviare alcuni flussi, un blocco efficace dello Stretto di Hormuz porterebbe a un drastico cambiamento nelle prospettive del petrolio, spingendo il mercato in un profondo deficit. La capacità produttiva inutilizzata dell'OPEC non aiuterebbe in questa situazione, poiché la maggior parte di essa si trova nel Golfo Persico. Quindi, anche questi flussi dovrebbero passare attraverso lo Stretto di Hormuz.

Prezzi più elevati comporterebbero un aumento delle trivellazioni negli Stati Uniti, ma ci vorrà del tempo prima che questa offerta aggiuntiva arrivi sul mercato. E i volumi non saranno sufficienti a compensare le perdite attraverso lo stretto di Hormuz. In caso di blocco riuscito, ci aspettiamo che il Brent salga a 120 dollari al barile nel breve termine. Un'interruzione prolungata (fino alla fine del 2025) vedrebbe probabilmente i prezzi salire sopra i 150 dollari al barile, raggiungendo nuovi massimi storici.

Tuttavia, non dimentichiamo che, anche se l'Iran ritenesse necessario reagire, bloccare lo stretto di Hormuz potrebbe essere un passo troppo lungo. Dato il potenziale impatto sui flussi e sui prezzi del petrolio derivante da un'azione del genere, è probabile che gli Stati Uniti e altri paesi reagiscano rapidamente. Inoltre, dato che oltre l'80% dei flussi di petrolio che passano da Hormuz che finisce in Asia, l'impatto sulla regione sarebbe maggiore di quello sugli Stati Uniti. Pertanto, l'Iran dovrebbe fare attenzione a non irritare paesi come la Cina. Inoltre, anche il petrolio iraniano transita attraverso Hormuz. Bloccare lo stretto avrebbe un impatto su questi flussi.

Impatto economico per Stati Uniti, zona euro e banche centrali


Probabilmente è anche un segno dei tempi in cui viviamo che un attacco statunitense agli impianti nucleari non abbia immediatamente portato a vendite forzate e panico nei mercati finanziari. Sembra che ci siamo tutti abituati a quanto volatile e imprevedibile sia diventato il mondo.

Oltre alla minaccia derivante dall'aumento dei prezzi del petrolio, l'incertezza a livelli elevati rappresenta un ulteriore fattore che limita la vivacità dell'attività economica negli Stati Uniti e nell'Eurozona. Come se non avessimo avuta abbastanza. Il nuovo picco dei prezzi del petrolio minaccia di stravolgere l'attuale trend che vede le pressioni disinflazionistiche superare quelle inflazionistiche sia negli Stati Uniti che nell'Eurozona. Situazione già messa alla prova dal previsto impatto inflazionistico dei dazi statunitensi.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti e la Federal Reserve, le scorte di magazzino potrebbero aver permesso alle aziende di rinviare le decisioni sull'aumento dei prezzi, ma non sarà così ancora per molto. Ci aspettiamo picchi più consistenti nei dati sull'inflazione mese su mese per tutta l'estate. Il recente Beige Book della Fed ha citato diffuse segnalazioni di aumenti dei prezzi più aggressivi nei prossimi tre mesi. L'aumento dei prezzi del petrolio non fa che rafforzare questa prospettiva. Allo stesso tempo, qualsiasi interruzione nello Stretto di Hormuz infliggerebbe probabilmente danni tutto sommato limitati all'economia statunitense. Gli Stati Uniti sono un esportatore netto di energia, con meno del 10% delle loro importazioni di petrolio provenienti dal Golfo Persico. Tuttavia, l'aumento dei prezzi globali del petrolio peserebbe sui consumatori e sulle imprese statunitensi, sebbene potrebbe anche aumentare l'attrattiva di nuovi progetti di trivellazione nazionali.

Per la Fed, questa combinazione di prezzi del petrolio potenzialmente più elevati, nuova incertezza geopolitica, dazi ancora incombenti e tensioni commerciali in corso dovrebbe rafforzare l'attuale atteggiamento attendista. Prevediamo che il primo taglio della Fed avverrà nel quarto trimestre, potenzialmente a partire da un taglio di 50 punti base a dicembre.

Per l'Eurozona, l'impatto di prezzi del petrolio più elevati sull'attività economica sarebbe limitato. Secondo uno scenario della Banca Centrale Europea, un aumento del 20% dei prezzi dell'energia potrebbe ridurre la crescita di 0,1 punti percentuali sia nel 2026 che nel 2027. Ci stiamo comunque basando su modelli economici. A causa della recente esperienza con gli elevati prezzi dell’energia nel contesto della guerra in Ucraina, l'impatto effettivo di un nuovo shock dei prezzi del petrolio potrebbe essere ancora maggiore.

Ma non sono solo consumatori e aziende a ricordare ancora vividamente l'impennata dei prezzi dell'energia. Anche la BCE e altre importanti banche centrali portano le cicatrici di quell'episodio. Il termine "transitorio" è stato di fatto cancellato dal vocabolario della BCE. Applicare semplicemente i prezzi del petrolio di oggi alle proiezioni macroeconomiche di giugno della BCE aumenterebbe l'inflazione di 0,3 punti percentuali quest'anno e di 0,6 punti percentuali l'anno prossimo. Dite addio ai timori di un'inflazione sottostimata e date il benvenuto alle rinnovate preoccupazioni inflazionistiche. Un taglio dei tassi a luglio è ormai chiaramente fuori discussione, e persino la decisione di settembre potrebbe rivelarsi più controversa del previsto dopo quella di giugno.

Il ritorno del dollaro?

Negli scambi di questa mattina, il dollaro ha messo a segno un prevedibile rimbalzo. La dimostrazione della potenza militare statunitense, così come il timore di un aumento dei prezzi del petrolio, hanno indebolito l'euro. Guardando al futuro, uno degli interrogativi chiave è se il coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto possa ripristinare l'appeal del dollaro come bene rifugio. In questo caso, un fattore cruciale sarà la durata di un eventuale blocco dello Stretto di Hormuz. Più a lungo durerà un blocco di questo tipo, maggiore sarà la probabilità che il valore di alternative rifugio come l'euro e lo yen venga eroso, e che il dollaro possa godere di una discreta ripresa.

Se la rappresaglia iraniana verrà contenuta, gli Stati Uniti non proseguiranno con ulteriori attacchi e il picco del petrolio si rivelerà temporaneo. Così, il sostegno al dollaro dovrebbe svanire piuttosto rapidamente. Il mercato continua a preferire posizioni corte strategiche sul dollaro anche a livelli elevati, quindi uno shock geopolitico temporaneo potrebbe semplicemente spingere i mercati a vendere l'USD a prezzi più interessanti.

Nessun effetto rifugio, per ora


Ciò che è stato finora degno di nota è stata l'assenza di fuga verso la sicurezza nei titoli obbligazionari. Fin dai primi bombardamenti e con quelli proseguiti al 12-13 giugno, la reazione del mercato ha mostrato un movimento minimo verso i tradizionali asset considerati sicuri: né i titoli del Tesoro USA, né i Bund, né i mercati dei tassi hanno registrato afflussi significativi. I mercati obbligazionari si sono rapidamente slegati dagli eventi. Se la situazione dovesse peggiorare drasticamente nei prossimi giorni, ci sarà un’inversione di rotta e la liquidità prelevata dagli asset rischiosi andrà verso le obbligazioni più sicure.

Un calo repentino dei rendimenti nel breve termine potrebbe riflettere un crescente sconto di mercato per rischi significativi nelle prospettive macroeconomiche globali. Abbiamo due guerre di notevole portata in corso, con aspettative minime di contenimento. Questo, unito agli effetti negativi derivanti dai dazi negli Stati Uniti, crea un circolo vizioso che può sicuramente tradursi in una fuga dagli asset rischiosi verso le obbligazioni.

Detto questo, e alla luce di quanto sappiamo, i tassi di mercato saranno probabilmente inclini a scontare due fattori. In primo luogo, un esito "positivo", nel senso che l’Iran considerato un "cattivo attore" sul palco internazionale vedrà ridurre drasticamente la propria capacità di costruire bombe nucleari. In secondo luogo, anche nel caso si verifichi questa ipotesi, il mercato dei tassi si preoccuperà di eventuali effetti collaterali sull’inflazione, dovuti a pressioni al rialzo sui prezzi dell'energia, in un contesto di ampia agitazione regionale. Detto questo, la reazione dominante dovrebbe essere una pressione all’irripidimento della curva, probabilmente proveniente dal segmento a lungo termine.

I mercati del credito fermi, per ora

I mercati del credito continuano a non risentire delle crescenti tensioni geopolitiche, per ora. Un'ulteriore e più drastica escalation potrebbe portare a una modalità di risk-off. Gli spread del credito hanno aperto stamattina invariati sia nei CDS che nel cash. Nel frattempo, i mercati primari sono rimasti aperti e hanno registrato un gran numero di operazioni. Gli spread si trovano nella metà inferiore del range di negoziazione, ma hanno ancora un potenziale di restringimento di 6-10 pb nella parte inferiore. A questi livelli più stretti, il valore relativo tra il credito e le altre asset class diventa molto limitato e quindi l'asset allocation viene messa in discussione.

Per ora, il credito è ancora sostenuto dalla grande domanda e dalla liquidità prontamente disponibile. Sebbene i dati tecnici, sulla carta, appaiano meno forti (maggiore offerta, afflussi più lenti, scadenze della BCE), lo spazio del credito rimane bel alimentato dall'offerta e dalla domanda, come dimostrano gli spread ristretti, i NIP molto bassi e i libri ben sottoscritti sul mercato primario.

Le crescenti tensioni e le potenziali ripercussioni economiche (ad esempio, l'impatto dei prezzi dell'energia) si aggiungono alla lista crescente di fattori di volatilità nel complicato mix del credito. Ma per ora rimaniamo nello scenario positivo alla Riccioli d'oro.
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