Negli ultimi anni, l’ADHD, ovvero il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, ha guadagnato crescente attenzione pubblica e scientifica. Secondo i dati dell’AIFA, in Italia ne soffrono circa 1,26 milioni di persone, di cui 317.000 bambini e adolescenti tra i 6 e i 17 anni.
ADHD: in Italia: 1,26 milioni di persone colpite. Nuovi studi evidenziano fattori ambientali e diagnostici
Un aumento di diagnosi che ha sollevato interrogativi: si tratta di un reale incremento dei casi o entrano in gioco altri fattori? Un approfondimento pubblicato su Nature e rilanciato da Focus prova a chiarire il quadro. Tra gli esperti non c’è unanimità sul modo di interpretare l’ADHD. Alcuni lo considerano un disturbo neuropsichico che richiede intervento medico e terapeutico; altri, seguendo le linee del movimento per la neurodiversità, lo definiscono una differenza neurologica da comprendere e gestire.
In quest’ottica, scuole e ambienti di lavoro dovrebbero adattarsi alle esigenze di chi convive con ADHD, piuttosto che modificare il comportamento della persona. Allo stesso tempo, numerosi specialisti sottolineano che l’ADHD può comportare difficoltà reali, tra cui problemi scolastici, incidenti e rischio di abuso di sostanze, rendendo in molti casi necessaria la terapia farmacologica. L’aumento delle diagnosi può essere collegato anche alle modalità con cui vengono effettuate. Alcuni studi, ad esempio, si basano su dati raccolti tramite sondaggi non sempre scientifici, come quello citato in un report della commissione statunitense Make America Healthy Again, in cui ai genitori era semplicemente chiesto se un medico o un operatore sanitario avesse mai diagnosticato l’ADHD al proprio figlio.
Procedendo con strumenti più rigorosi e standardizzati, la prevalenza osservata a livello mondiale appare più uniforme: circa il 5,4% dei bambini e il 2,6% degli adulti. Un ulteriore elemento che potrebbe aver contribuito all’incremento delle diagnosi riguarda i cambiamenti nei criteri del DSM, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Nella quarta edizione, in uso fino al 2013, era richiesta la presenza di almeno sei sintomi di disattenzione o sei di iperattività prima dei sette anni di età. Nella quinta edizione, attualmente in vigore, i sintomi richiesti sono almeno cinque per gli adulti e sei per i bambini, con comparsa entro i 12 anni.
Secondo il neurologo pediatrico Max Wiznitzer, l’aumento delle diagnosi nei bambini può aver portato alla scoperta del disturbo anche nei genitori, considerando che l’ADHD presenta un’ereditarietà stimata tra il 70 e l’80%. «Anche se con ogni probabilità quei genitori manifestavano sintomi già da bambini, molti di loro non hanno mai ricevuto una diagnosi», spiega Wiznitzer. L’ambiente e i social media rappresentano un ulteriore fattore.
Piattaforme come TikTok e Instagram hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica e a stimolare il riconoscimento dei sintomi, grazie anche alle testimonianze di personaggi pubblici. Secondo Margaret Sibley, specialista in psichiatria e scienze comportamentali, parlare di ADHD sui social può aver aiutato «le persone che convivevano con questi sintomi e difficoltà da molto tempo, ma non avevano mai capito di cosa si trattasse». Infine, alcuni esperti sottolineano l’influenza del contesto sociale e lavorativo. La complessità di scuole, luoghi di lavoro e tecnologia può rendere più evidenti le difficoltà associate all’ADHD.
Jeff Karp, ingegnere biomedico con diagnosi di ADHD, osserva che il disturbo è «contesto-dipendente: in una scuola dove ci si aspetta che i bambini stiano fermi e in silenzio, questi tratti finiscono per sembrare un problema». L’incremento delle diagnosi di ADHD, insomma, non riflette esclusivamente un aumento reale dei casi. Il fenomeno appare legato a una combinazione di fattori ambientali, culturali e sociali, ai cambiamenti nei criteri diagnostici e a una maggiore consapevolezza pubblica, piuttosto che a una vera esplosione epidemiologica.