Appena poche ore prima di autorizzare i bombardieri americani ad attaccare i siti nucleari iraniani, il presidente Trump aveva parlato di due settimane come del tempo che si era preso per valutare se l'evoluzione del conflitto tra Israele e Iran poteva imporre agli Stati Uniti di agire militarmente.
Una affermazione che non aveva certo sorpreso gli analisti politici, che ormai hanno fatto l'abitudine ai discorsi di Trump, non sempre coerenti, infarciti di ultimatum e ''penultimatum'' a seconda di chi sia il nemico di turno da minacciare per poi blandire.
Anche se, in momenti come questi, in cui gli attacchi tra i contendenti sono quotidiani, darsi due settimane era apparso oggettivamente un escamotage, un modo per prendere tempo (comunque non 14 giorni) per valutare se, sotto la pressione psicologica delle minacce di Washington, Teheran fosse disposta ad accettare un passo indietro.
Ma, per come appare ora chiaro, Trump ha cambiato idea perché, nel suo entourage, il numero e le convinzioni di chi riteneva inopportuno l'attacco si sono andati assottigliando, davanti alla linea di Teheran di non cedere.
Quindi, alla fine, alla Casa Bianca è prevalsa la linea dura, che potrebbe comunque esaurirsi con l'attacco delle scorse ore, nella speranza che l'Iran, davanti potenziali nuove distruzioni, decida di trattare, ma sul serio e non seguendo la solita tattica del traccheggio.
Insomma un attacco ed uno solo, sebbene devastante, per dire all'Iran che, se ne dovessero seguire altri, sarebbero ben più pesanti e con uno spettro di possibili obiettivi talmente ampio da rendere impossibile adottare delle contromisure difensive.
Ora, però, Trump dovrà valutare la portata delle sue decisioni anche sul fronte interno, ma interno per davvero, perché l'autorizzazione ad attaccare di fatto proietta gli Stati Uniti in uno scenario di guerra al quale si sono sempre opposti i repubblicani dell'ala più dura, quella isolazionistica, che non vuole che l'esercito americano faccia da gendarme in giro per il mondo, facendo rischiare la vita ai suoi soldati.
I primi scricchiolii in casa Gop si sono già avvertiti e c'è stato chi ha detto che una decisione come quella adottata da Trump, avendo un profilo bellico, non poteva essere presa se non dopo un passaggio al Congresso.
Addirittura pensando che quanto sta accadendo possa configurare una situazione da impeachment.
Alla fine, evidentemente, ha prevalso l'opzione dell'attacco forte, ma isolato, per fare capire alla repubblica islamica che le conseguenze potrebbero essere ancora più gravi, senza per questo chiedere che l'attuale catena di comando della teocrazia (a cominciare dalla Guida suprema, Ali Khamenei) si faccia da parte, lanciando comunque un avviso per quella che, prima o poi, dovrà prendere il suo posto.
A conti fatti, quindi, l'attacco ha visto la vittoria dei falchi, senza per questo significare che gli Stati Uniti vogliamo dare immediatamente corso alle minacce, impantanandosi in uno scenario di guerra complesso e con ampi margini di allargamento a livello regionale.
Appare, infatti, abbastanza chiaro che, nel momento in cui ha deciso di attaccare direttamente l'Iran, Trump non si può permettere di esporsi alle rappresaglie della galassia armata sciita e che quindi, al primo manifestarsi dell'aggressività degli Houti, che minacciano di prendere a cannonate le navi che passino davanti allo Yemen battendo bandiera di Stati rivali, sarà costretto a reagire e anche pesantemente.