Una sillaba in meno, un dibattito in più. L’Inno di Mameli torna a far parlare di sé non per una rivoluzione ideologica, né per l’ennesima polemica social sull’inclusività, ma per una questione apparentemente minuta: la cancellazione di quel “sì” finale che, da decenni, chiude a voce spiegata il “Siam pronti alla morte l’Italia chiamò”. Una sillaba che gli italiani hanno sempre cantato a squarciagola (pure troppo) senza interrogarsi sul perché stesse lì.
A spiegarcelo, ci ha pensato il presidente Mattarella (lui, sempre lui), che col decreto del 14 marzo 2025 - su proposta della premier - ha messo nero su bianco le modalità ufficiali di esecuzione dell’Inno nazionale, richiamandosi alla legge 181 del 2017 e indicando come riferimento il testo originario del Canto degli Italiani. Traduzione pratica: niente più “sì” finale. Una decisione recepita con disciplina militare, è il caso di dirlo, dallo Stato Maggiore della Difesa, che con una disposizione del 2 dicembre 2024, firmata dal generale di divisione Gaetano Lunardo, ha ordinato che nelle cerimonie istituzionali l’Inno cantato si concluda senza quella sillaba aggiunta. Massima diffusione a tutti i reparti, fino ai livelli periferici.
Sul sito del Quirinale campeggia come modello l’esecuzione del 1971 affidata alla voce di Mario Del Monaco: potente, solenne, e soprattutto priva del famigerato “sì”. Secondo il Colle, si tratta di un adeguamento tecnico richiesto dalle bande musicali per uniformare l’esecuzione al testo primigenio di Goffredo Mameli e allo spartito originale di Michele Novaro. Tutto molto ordinato, filologicamente rassicurante. Peccato che, proprio sul terreno della filologia, le cose siano un filo meno lineari. Il “sì”, infatti, non compare nel testo manoscritto inviato da Mameli a Novaro, ma risulta nello spartito musicale attribuito al compositore. Secondo diversi studi musicologici, quella sillaba sarebbe stata aggiunta per esigenze puramente musicali: una chiusura ritmica, una stampella sonora per dare respiro all’ultima battuta. Un’aggiunta tecnica, diventata nel tempo consuetudine esecutiva, poi tradizione, infine dogma popolare. Come spesso accade nella storia della musica, la prassi ha preceduto la teoria, e l’orecchio ha avuto la meglio sull’archivio.
A ben vedere, però, la questione del “sì” è solo la punta di un iceberg. Da tempo, infatti, l’Inno italiano è oggetto di critiche non solo ideologiche o linguistiche, ma squisitamente musicali. C’è chi lo considera un brano modesto, se non addirittura imbarazzante, soprattutto se confrontato con la tradizione musicale di un Paese che ha dato i natali a Verdi, Puccini e Monteverdi. Una melodia giudicata elementare, una scrittura armonica prevedibile, un impianto che vive di enfasi più che di raffinatezza. Luciano Berio, uno che di musica se ne intendeva parecchio, non nascose mai una certa insofferenza per quella che definiva una povertà inventiva poco degna del patrimonio italiano.
Altri musicologi hanno puntato il dito contro la struttura stessa del brano: una tonalità brillante, sì, ma un andamento che alterna slanci e frenate, rendendo l’Inno sorprendentemente difficile da cantare per masse non addestrate. Non a caso, nelle esecuzioni da stadio, il Canto degli Italiani è spesso un Inno più urlato che intonato. Colpa anche di un’interpretazione marziale che, nel tempo, ha trasformato il brano in una sorta di marcetta militaresca, lontana dall’idea originaria di canto patriottico ottocentesco. C’è poi il capitolo, mai ufficialmente ammesso ma spesso sussurrato nei corridoi della musica colta, del disagio dei grandi direttori d’orchestra nei confronti dell’Inno. Riccardo Muti, secondo una vulgata ormai entrata nel mito, avrebbe evitato di eseguirlo alla Scala per ragioni più musicali che politiche.
Vero o no, il fatto che questa storia circoli dice molto sulla percezione del brano nel mondo della musica “alta”. In questo contesto, la sparizione del “sì” finale assume un valore quasi simbolico. Non è solo una questione di fonti, ma un gesto che riporta l’attenzione su un Inno che, a ogni generazione, sembra chiedere di essere riletto, discusso, magari persino difeso. Difeso non tanto dagli attacchi frontali – come quelli, recenti e molto mediatizzati, sulla sua presunta non inclusività – quanto da una sorta di imbarazzo culturale che l’Italia non ha mai del tutto superato. Forse perché l’Inno di Mameli è figlio di un tempo preciso, con una retorica bellicosa e un fervore patriottico che oggi suonano datati. Forse perché musicalmente non è all’altezza delle aspettative che gravano su un simbolo nazionale. O forse perché, come spesso accade ai simboli, gli chiediamo di essere tutto: rappresentativi, inclusivi, emozionanti, impeccabili. E lui, povero Inno, resta lì, a fare quello che può, con o senza “sì”.