Fabrizio Corona sa, da perfetto stratega, quando e dove e come colpire con le sue dichiarazioni, che non sono mai casuali né gratuite. Questa volta non è ospite di qualche programma tv mentre si presta a un gioco che ama detestare: no, stavolta parla dalla sua fortezza digitale, Falsissimo, un format che è insieme confessionale, tribunale e palcoscenico. Da lì, sferra un attacco frontale ad Alfonso Signorini. Nomi, presunte chat, racconti di provini che scivolano verso zone d’ombra, dove il confine tra opportunità e alcova si fa improvvisamente labile e l’indignazione corre veloce, come la curiosità morbosa. Signorini, l’ex professore di latino e greco, assurto dall’orizzonte piatto di una provincia grigia e anonima ai fasti della grande editoria mondadoriana. Il rischio è quello di sempre: che lo scandalo divori il senso degli avvenimenti, riducendo tutto a rumors da social. Ma non è tutto qui e fermarsi alla superficie è una scappatoia comoda dal velo appena sollevato su una dinamica antica, che pulsa sotto la pelle dello spettacolo da molto prima degli attuali protagonisti. In Blonde, una giovane, disperata Marilyn, è costretta a soggiacere alle voglie di un produttore viscido, ed esce dal suo studio zoppicando, dopo aver pagato il prezzo dei suoi sogni.
Il potere parla una lingua esplicita, quasi carnale. Da sempre è un sistema di relazioni asimmetriche, in cui l’accesso al “paradiso” mediatico passa attraverso compromessi noti, tollerati, persino normalizzati: c’è un’intera letteratura al riguardo in una linea ideale che ha collegato Hollywood a ogni città della speranza. Oggi la narrazione è cambiata: toni più sobri, apparente trasparenza. Ma sarebbe ingenuo pensare che la struttura profonda del potere si sia dissolta. Il potere non scompare mai: semplicemente si riorganizza. Le parole di Corona hanno un peso particolare non perché rivelino verità sconosciute, ma perché indicano che il re è nudo, letteralmente, ed è sotto gli occhi di tutti da sempre in un meccanismo che pochi hanno voglia di guardare in faccia.
E non ha nulla a che fare con l’orientamento sessuale, ma tutto con la gestione feroce del desiderio di appartenenza. Ridurre la questione a una questione di lobby o di fluidità è una scorciatoia rassicurante. Il punto non è chi va a letto con chi: il punto è la solitudine di chi, pur di non sparire, pur di “esserci” mediaticamente, accetta di cedere la parte più intima di sé. Per un periodo ho lavorato a Cinecittà. File lunghissime di sognatori che ti vedono varcare i cancelli, domandano speranzosi “ma Maria, la conosci?”. Ci ho messo un quarto d’ora per capire a chi si riferissero. Come se fosse una loro amica. Non una produttrice potentissima che, presumibilmente, continuerà a ignorare la loro esistenza. E nemmeno un’evasione dalla realtà. Maria, è tutto per loro. Finché poi la realtà non colpisce in piena faccia: il talento non basta. La fila è lunga. “Poche ossa e troppi cani”, come canta Cesare Cremonini. Il potere seduce. Offre scorciatoie. “Se non lo faccio io lo farà un altro”, è il mantra. Quello più sentito. Il più diffuso. Un classico. Inutile chiedersi “chi è il colpevole?”. Il vero scandalo è l’esistenza di un sistema che rende il compromesso una moneta legittima e si indigna a posteriori, che prospera sul silenzio preventivo e sull’amnesia collettiva. Lo scandalo di oggi serve a incartare le uova, domani. O a foderare la lettiera del gatto, per chi usa ancora i giornali. E tutto questo rattrista, come le foto di Lele Mora che vende pellicce al mercato. Forse il contributo più onesto è riconoscere la fragilità umana che si nasconde dietro la maschera del successo. E poi una domanda scomoda, che va ben oltre il gossip: quanto siamo disposti a sacrificare di noi stessi pur di non sentirci esclusi? Il metodo Corona dice una verità. E la dice a voce alta: il mercato dei sogni è ancora spietato e tutti noi, nessuno escluso, abbiamo un prezzo.