Cultura

The Musical Box all’Auditorium Parco della Musica. Una scatola sonora che racchiude l’epopea dei Genesis

di Teodosio Orlando
 
The Musical Box all’Auditorium Parco della Musica. Una scatola sonora che racchiude l’epopea dei Genesis

A un anno dall’ultima esibizione a Roma, è tornato a suonare all’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone” l’ensemble The Musical Box, forse la migliore tribute band dei Genesis: anche questa volta, il 20 marzo 2025, la scelta è caduta sulla Sala Sinopoli, mentre dieci anni fa era stata scelta addirittura la Sala Santa Cecilia, segno evidente della consacrazione, anche per la cultura alta, di questo tipo di musica. La band ha presentato quasi mille concerti in tutto il mondo per più di un milione di spettatori, in palcoscenici prestigiosi come la Royal Albert Hall di Londra, l’Olympia di Parigi e il Bell Center di Montreal.

I cinque musicisti, di origine canadese (Denis Gagné, François Gagnon, Sébastien Lamothe, Guillaume Rivard e Marc Laflamme), sono stati capaci di rivisitare e riprodurre fedelmente il repertorio e anche i costumi dei Genesis della Golden Age, in special modo quella con Peter Gabriel come cantante, con qualche incursione nel periodo che va fino al 1977 e conclude la fase più propriamente progressive della mitica band inglese. È un’operazione che potremmo chiamare di vintage retrieval, apprezzata dagli stessi Peter Gabriel (che ha dichiarato: “The Musical Box recreated, very accurately I must say, what Genesis was doing. I saw them in Bristol with my children so they could see what their father did back then.”  – “I The Musical Box hanno ricreato, in modo molto accurato devo dire, quello che facevano i Genesis. Li ho visti a Bristol con i miei figli, così hanno potuto vedere cosa faceva il loro padre all’epoca.”) e Phil Collins (“They’re not a tribute band, they have taken a period and are faithfully reproducing it in the same way that someone would do a theatrical production.” – “Non sono una tribute band, hanno preso un periodo e lo stanno riproducendo fedelmente nello stesso modo in cui qualcuno farebbe una produzione teatrale.”). In taluni casi il lavoro dell’ensemble si è spinto fino al recupero degli strumenti musicali originali utilizzati dai Genesis. Tanto impegno è valso al quintetto canadese l’apprezzamento collaborativo degli stessi ex membri dei Genesis: Steve Hackett e lo stesso Phil Collins in passato hanno anche condiviso il palco con The Musical Box.

Il fulcro intorno a cui ruota questa tournée (intitolata Genesis Live. The Original 1972/73 Show) è costituito dagli album Nursery Cryme e Foxtrot, risalenti rispettivamente al 1971 e al 1972, e che forse costituiscono la massima espressione degli stilemi prog in chiave rock (mentre con il successivo Selling England by the Pound, presentato nel precedente concerto romano, il discorso musicale si apre di più alla musica classica). The Musical Box sono nati nel 1993 e hanno più volte ristrutturato la loro formazione, fino a raggiungere un equilibrio stabile che consente loro di offrire agli spettatori una specie di viaggio a ritroso nel tempo, proiettando l’immaginazione quasi per magia negli anni ‘70, con la riscoperta delle ambientazioni e delle scenografie dei primi Genesis: il tutto ottenuto grazie a un paziente lavoro di scavo e di ricerca che non esiterei a definire “filologico”, sulla base della comparazione di migliaia di foto, di diapositive originali e di video amatoriali dei concerti dei Genesis: l’effetto è quello di una vera e propria rievocazione storica della band che ha scritto un capitolo esemplare della storia del rock progressivo.

Del resto, ormai la musica dei Genesis ha sempre più l’aspetto di qualcosa di classico, ma con una sostanziale differenza rispetto alla musicacólta” o “forte”, per riprendere un’espressione coniata dal musicologo Quirino Principe: mentre l’esecuzione di quest’ultima non è indissolubilmente legata ai compositori che l’hanno scritta, cosicché una partitura può essere reinterpretata anche dopo la morte del compositore (Vladimir Davidovič Aškenazi o Roberto Prosseda possono benissimo interpretare in modo sublime una sonata di Johannes Brahms o di Robert Schumann), per l’ibridazione di rock sinfonico e progressive della band inglese si può ripetere quanto ha detto Walter Benjamin dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: la sua esistenza unica è legata al luogo in cui si trova. Ovviamente qui il termine luogo va inteso metaforicamente, come simbolo della compresenza dei brani musicali con i musicisti che li hanno composti e che coincidono con gli esecutori.

Pertanto, la sfida che hanno dovuto affrontare i The Musical Box è stata davvero improba: impedire che la fedeltà “filologica” agli originali si tramutasse in una sorta di brutta copia di quell’impossibile “unicità” o in abile esercizio di scuola. Certo, a nostro parere reinterpretare i brani del quintetto britannico implicherebbe un’operazione che vada ben al di là del concetto di cover: un’esecuzione originale comporterebbe quella che una volta Theodor W. Adorno ha paragonato a una fotografia a raggi X dell’opera, ossia a un’operazione che non si limiti a mostrare il mero scheletro del brano musicale per poi riprodurlo fedelmente, ma riesca a individuare la densità strutturale profonda della sua “armonia pura” per poi reinterpretarlo in modo originale.

Il quintetto canadese ha scelto invece un’altra strada: quella di rileggere con tanta fedeltà i brani dei Genesis da renderli pressoché indistinguibili dagli originali da studio, piuttosto che da quelli eseguiti nei concerti. In fondo, non hanno fatto nient’altro che compiere quell’operazione che ha reso celebre Pierre Ménard, lo scrittore immaginario che nella novella di Jorge Luis Borges si riproponeva di riscrivere il Don Quijote di Miguel de Cervantes in modo così fedele all’originale spagnolo del XVII secolo da renderlo del tutto identico al testo del sommo autore della letteratura castigliana.

Il concerto ha ricreato in modo impeccabile il sound e l’atmosfera del periodo d’oro dei Genesis, con una setlist quasi completamente composta dai capolavori degli album Nursery Cryme e Foxtrot, con qualche incursione in Trespass. E in effetti, lo spettacolo ha permesso ai presenti di rivivere un periodo che ha segnato un’epoca, con i suoi arrangiamenti complessi, i cambi di tempo e l’innovazione musicale che ha contraddistinto il progressive rock. La band ha iniziato con la straordinaria “Watcher of the Skies”, con Denis Gagné nei panni di Peter Gabriel che ha catturato subito l’attenzione del pubblico grazie alla sua presenza scenica e alla sua voce, sorprendentemente simile a quella del leggendario frontman: ha usato anche gli stessi costumi scenici dell’epoca, con ali di pipistrello accanto alla testa, un vistoso make-up intorno agli occhi e un cappello policromo (dispiace semmai che nel corso dello show non abbiano presentato una maggiore varietà di costumi e di scenografie teatrali). I testi erano molto originali, dovuti a Mike Rutheford e Tony Banks (allora poco più che ventenni!), scritti durante una tappa a Napoli del tour del 1971, e basati sul racconto di fantascienza Rescue Party di Arthur C. Clarke, con riferimenti anche a John Keats: “Then felt I like some watcher of the skies/When a new planet swims into his ken” (“Allora mi sentii come un osservatore dei cieli/quando un nuovo pianeta nuota alla sua portata”, On First Looking into Chapman’s Homer) e a James Joyce (“At that hour when all things have repose,/O lonely watcher of the skies,/Do you hear the night wind and the sighs/Of harps playing unto Love to unclose/The pale gates of sunrise” – “In quell’ora in cui tutte le cose riposano,/O solitario osservatore dei cieli,/senti il vento notturno e i sospiri/di arpe che suonano all’Amore per aprire/le pallide porte dell’alba?”, “At that Hour”, nella raccolta Chamber Music).  Il protagonista è un alieno che si trova di fronte il deserto dell’incombente estinzione del genere umano, e che non manca di formulare una condanna morale delle azioni autodistruttive dell’uomo: “Creatures shaped this planet’s soil,/Now their reign has come to an end./Has life again destroyed life,/Do they play elsewhere, do they know/More than their childhood games?/Maybe the lizard’s shed its tail,/This is the end of man’s long union with Earth”. (“Creature hanno dato forma al suolo del pianeta,/Il loro regno, adesso, è terminato./La vita, ancora, ha distrutto la vita?/Giocano altrove? Sanno di più/Dei loro giochi di quand’erano bambini?/La lucertola ha forse perso la coda,/Ecco, è finita la lunga unione dell’uomo con la Terra”).

Musicalmente, il brano si apre con alcuni accordi del Mellotron Mark 2 a opera di Sébastien Lamothe che imita Tony Banks, e si dipana su una ritmica della forma 6/4 (in parte ispirata al modello ritmico di 5/4 della suite The Planets di Gustav Holst). Segue una parte poliritmica, dove le tastiere di Lamothe vengono suonate in modo quasi percussivo, per rendere il cambiamento al tempo di 8/4, con l’ovvio accompagnamento ritmico della batteria di Marc Laflamme.

Il virtuosismo strumentale è stato un tratto distintivo della performance. François Gagnon, nei panni di Steve Hackett, ha sfoderato tutta la sua abilità tecnica con assoli straordinari, come quello nel brano eponimo “The Musical Box”: certo, la maestria di Hackett è irraggiungibile, ma Gagnon ha fatto di tutto per enfatizzare la precisione e la passione con cui la band interpreta il materiale originale. Sebastien Lamothe ha fornito una base solida alla sezione ritmica, riproducendo in modo impeccabile il basso di Mike Rutherford, mentre Ian Benhamou, con il suo organo vintage, ha regalato un autentico viaggio nel tempo con le sonorità che riecheggiano quelle di Tony Banks. “The Musical Box” è il pezzo più rappresentativo di Nursery Cryme, incentrato su una macabra fiaba “vittoriana”, in cui una ragazza uccide il compagno di giochi decapitandolo con una mazza da croquet. Il testo, scritto da Peter Gabriel, è una narrazione surreale e misteriosa che gioca con i concetti di perdita, morte e resurrezione. La “musical box” (scatola musicale) diventa un simbolo centrale nel brano, evocando un’idea di qualcosa che torna ciclicamente, ma che, pur conservando il suo contenuto, risulta distorto e intriso di nostalgia. Il ragazzo decapitato viene riportato in vita, ma il suo ritorno ha qualcosa di inquietante o perturbante (unheimlich, avrebbe detto Sigmund Freud; mentre Edgar Allan Poe avrebbe usato l’aggettivo uncanny) e non naturale, quasi fosse una versione “ombra” di sé stesso, un sinistro Doppelgänger. La malinconia, che pervade il brano, è legata a un ritorno che non è una vera e propria rinascita, ma una ripetizione senza fine di un evento doloroso. Nel testo il paranormale si intreccia con il folklorico a tinte erotiche: c’è una neppur troppo velata critica ai costumi della upper class britannica, celati dietro il self-control, il fair play e il galateo perbenista; dietro questa facciata, si celano violenze, perversioni sessuali e perfino episodi di infanticidio. È una black fairy tale nello spirito di Lewis Carroll e Oscar Wilde. E viene adombrata anche una vecchia filastrocca inglese (Old King Cole, risalente al 1708), nei seguenti versi: “Old King Cole was a merry old soul/And a merry old soul was he/He called for his pipe /and he called for his bowl/And he called for his fiddlers three” (“Il vecchio re Cole era un tipo allegro/proprio un vecchio tipo allegro/così chiese la sua pipa/chiese la sua scodella/e chiese i suoi tre violinisti”). Il brano comincia con gli accordi di tre chitarre acustiche, qui riprodotte dalle tastiere con tocco lieve e smorzato; successivamente, il brano si snoda alternando successioni di sezioni acustiche e delicate con momenti più forti, quasi eruzioni vulcaniche dovute alla batteria di Laflamme e ai sapienti giri melodici della chitarra di Gagnon (Hackett nell’originale). La sezione conclusiva approda a una vera climax, con alcuni passaggi strumentali che ricordano le sonate per pianoforte di Beethoven.

Abbiamo molto apprezzato la sezione ritmica, con Marc Laflamme nei panni di Phil Collins, che è stata una delle più precise che si potessero desiderare. Ogni colpo di batteria ha reso omaggio alla sua tecnica distintiva, con il famoso assolo del brano “Supper’s Ready” che ha coinvolto il pubblico in un crescendo emozionale. “Supper’s Ready”, probabilmente il momento culminante della serata, ha visto la band impegnata in una performance quasi teatrale, con Denis Gagné che ha vestito i panni di Gabriel, dando vita a una delle composizioni più ambiziose della storia della musica rock, una suite lunga quasi 23 minuti e che occupava un’intera facciata dell’album Foxtrot. Si tratta di una miniopera epica, divisa in sette sezioni musicali, che mescola elementi di apocalisse religiosa, visioni oniriche e simbolismo biblico, come ha osservato Donato Zoppo (La filosofia dei Genesis. Voci e maschere del teatro rock, Milano-Udine, Mimesis, 2015). La storia narrata nel brano può essere interpretata come una riflessione sull’umanità, il peccato, la redenzione e la lotta tra il bene e il male. Il testo è permeato da un senso di fine del mondo. La componente apocalittica del brano esplora un mondo che sta per essere consumato dal caos, ma in cui c’è ancora speranza di rinascita. La parte centrale presenta visioni simboliche complesse, tra cui riferimenti biblici e mitologici. I temi del sacrificio e della salvezza sono trattati con un linguaggio ricco di metafore religiose. L’apoteosi della suite si trova nel contrasto tra la distruzione e la speranza di salvezza, in una spirale musicale che esplora le contraddizioni della condizione umana. Ridotta alla nuda trama, la suite racconta il viaggio di due innamorati attraverso tre mondi: la realtà, un mondo onirico e una bizzarra “Willow Farm”, dove tutto è in costante trasformazione, come si evince da questi versi: “We’ve got everything, we’re growing everything/We’ve got some in, we’ve got some out/We’ve got some wild things floating about/Everyone, we’re changing everyone/You name them all, we’ve had them here/And the real stars are still to appear/(All change!)” (“Abbiamo tutto, stiamo facendo crescere tutto/Alcuni sono dentro, alcuni sono fuori/Abbiamo certe cose feroci che ci fluttuano in mente/Tutti, stiamo cambiando tutti/Dai un nome a tutti loro, li abbiamo qui/E le vere stelle devono ancora apparire/(Tutto cambia!)”). La narrazione inizia con un’atmosfera quotidiana e semplice, ma presto i protagonisti vengono catapultati in un’esperienza mistica. Nel mondo onirico si incontrano simboli biblici come i sette uomini con la croce, le sette trombe dell’Apocalisse e figure allegoriche che rappresentano il bene e il male. La storia culmina in un’apocalisse musicale in 9/8, con il ritorno delle parole iniziali e un riferimento all’avvento di un nuovo Cristo. Parallelamente, l’ispirazione della suite deriva anche da un’esperienza paranormale vissuta da Peter Gabriel con sua moglie Jill e il produttore John Anthony. Durante una notte a Kensington Palace, Jill entrò in una sorta di trance, l’atmosfera si fece gelida e Gabriel percepì un’inquietante presenza maligna. L’evento, insieme alla lettura dell’Apocalisse, influenzò profondamente la creazione della canzone, rendendola una rappresentazione della lotta tra bene e male. Non mancano neppure i riferimenti a un certo misticismo esoterico, con rimandi al pitagorismo, come in questi versi: “And the seven trumpets blowing sweet rock and roll/Gonna blow right down inside your soul/Pythagoras with the looking glass reflects the full moon/In blood, he’s writing the lyrics of a brand-new tune” (“E le sette trombe suonano dolce rock and roll/Soffieranno proprio dentro la tua anima/Pitagora con lo specchio riflette la luna piena/Nel sangue, sta scrivendo il testo di una canzone nuova di zecca”). In realtà i Genesis, pur evidenziando il ruolo di Pitagora nella musica, nella filosofia e nella matematica, si prendono un po’ gioco dell’illustre personaggio, il quale credeva che tutto fosse regolato dai numeri, compresi i cicli della natura e le forze opposte. Questo si riflette in “Supper’s Ready”, che esplora la lotta tra bene e male in un ciclo narrativo, ma non fa mancare una certa ironia sulla precisione matematica: Nelle note degli stessi Genesis alla sezione “Apocalypse in 9/8”, Pitagora viene citato in modo scherzoso mentre dosa esattamente latte e miele sui cereali. È una parodia del suo approccio rigoroso alla realtà, applicato a un gesto banale. Peraltro, Pitagora fu tra i primi a stabilire un legame tra musica e matematica, teorizzando il fatto che i pianeti producessero un’armonia cosmica. Questa idea si collega alla struttura musicale di “Supper’s Ready” e al concetto di un ordine superiore. Inoltre, Pitagora credeva nella trasmigrazione dell’anima, e la canzone inizia con una trasformazione. I protagonisti diventano semi nel terreno, in attesa della primavera: è un chiaro richiamo alla rinascita della natura. Il testo poi cita Pitagora che “con lo specchio riflette la luna e sta scrivendo il testo di una canzone nuova di zecca”. L’allusione riprende una leggenda secondo cui Pitagora riusciva a scrivere sulla Luna tramite uno specchio. L’idea suggerisce un collegamento tra conoscenza esoterica, simbolismo e musica. Sostanzialmente “Supper’s Ready” si serve della figura di Pitagora per dare risalto ai temi del ciclo della vita, del conflitto cosmico e della musica come forza universale, con un tocco di ironia sulla precisione matematica.

La band ha rispettato la divisione in sezioni, passando da momenti di solenne tranquillità a esplosioni di potenza musicale che hanno amplificato il messaggio di catarsi e speranza nel brano. Ogni sezione, dall’eterea “Lover’s Leap” all’apocalittica “Apocalypse in 9/8”, è stata eseguita con una fedeltà sbalorditiva. 

Degli altri brani, “The Return of the Giant Hogweed” ha mostrato la capacità della band di trasmettere la tensione e l’energia delle performance dal vivo dei Genesis, con un suono potente e una sequenza ritmica che ha scandito efficacemente il brano, sempre tratto da Nursery Cryme, tra sincopi e metri dispari in 5/4 e 7/8. È uno dei brani più inquietanti e bizzarri della band: la trama ruota attorno a un’invasione di piante mutanti, la “Giant Hogweed” (un’erba infestante, dalle sembianze di una pianta apparentemente innocua, ma in realtà letale), che diventano una minaccia per l’umanità, portando distruzione e caos. Il brano esplora il concetto di un’invasione naturale che sfugge al controllo dell’uomo. Il brano è tanto una critica sociale quanto una riflessione su tematiche ecologiche, con il paradosso della natura che si ritorce contro l’uomo. La pianta, tra l’altro, esiste davvero: si tratta dell’Heracleum mantegazzianum e ha effetti altamente tossici sull’uomo; la sua diffusione in Europa costituisce una minaccia per la biodiversità, specialmente in Inghilterra.

La Giant Hogweed rappresenta la forza inarrestabile della natura che può sopraffare l’uomo, un tema che risuona con preoccupazioni ecologiche e sociali. Il testo suggerisce anche un ritorno alle origini di un male o di una minaccia che l’uomo aveva tentato di sopraffare, ma che si è rigenerato e ora torna più potente che mai. Questa “resurrezione” della minaccia diventa simbolo di come le forze che l’uomo tenta di controllare, come la natura o il proprio destino, possano sfuggirgli.

Notevole anche l’interpretazione di “The Knife” (unico brano tratto da Trespass), con una climax strumentale che ha messo in mostra tutta la potenza della band. Si tratta di un brano dove un riff di organo scandisce quasi una marcia, accompagnata da chitarre e basso fortemente distorte a sottolineare la drammaticità del testo, concepito da Gabriel in una fase “gandhiana” del suo percorso spirituale, dove la violenza delle rivoluzioni in nome della libertà spesso nasconde solo la volontà di imporre un altro tipo di dittatura: “Soon we’ll have power, every soldier will rest/And we’ll spread out our kindness/To all who our love now deserve./Some of you are going to die/Martyrs of course to the freedom that I shall provide”. (“Presto avremo il potere, ogni soldato si riposerà /e noi elargiremo la nostra bontà /a tutti coloro che ora meritano il nostro amore./Alcuni di voi sono destinati a morire, /certamente martiri della libertà che vi procurerò”). Ogni riferimento al conflitto russo-ucraino è puramente casuale...

Degli altri brani, osserviamo come in “The Fountain of Salmacis” i membri della band gestiscano molto bene la complessità di quella che è una partitura classicheggiante, con passaggi imprevisti dal maggiore al minore, sostituendo l’orchestra con il mellotron. Quest’ultimo strumento si nota anche in “Seven Stones”, che con il suo cromatismo sontuoso richiama per certi versi “Epitaph” dei King Crimson. Ci ha molto stupito poi l’esecuzione del brano “Twilight Alehouse”, proposto a suo tempo come lato B del singolo “I Know What I Like”, con progressioni quasi da poema sinfonico. “Can-Utility and the Coastliners”, da Foxtrot, proposta come un quasi bis, ha suggestionato la Sala Sinopoli con la sua complessità armonica e ritmica e con un testo che rimanda alla copertina del disco, dove si scorge un sottomarino nell’angolo in alto a destra: è un riferimento al sottomarino della US Navy fermo, in quello scorcio di anni ’70, nel mare dell’Inghilterra, a puntare direttamente sulla Russia in modo inquietante.

Il concerto di The Musical Box ha rappresentato una vera e propria celebrazione dei Genesis, offrendo al pubblico romano una performance da ricordare. Grazie alla sua capacità di ricreare l’esperienza musicale e visiva del gruppo di Gabriel, Hackett & Collins con una precisione straordinaria, la band canadese ha ancora una volta dimostrato di essere la più fedele e coinvolgente tra tutte le tribute bands in circolazione. Chi ha avuto la fortuna di essere presente a quest’evento, ha assistito a una performance che non è solo un omaggio alla musica, ma una vera e propria trasmissione dello spirito del progressive, la vera grande musica dell’ultima parte del XX secolo.

Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, Roma

Setlist

Watcher of the Skies (da Foxtrot)
The Musical Box (da Nursery Cryme)
The Fountain of Salmacis  (da Nursery Cryme)
Get ’Em Out by Friday (da Foxtrot)
Supper’s Ready (da Foxtrot)
The Return of the Giant Hogweed (da Nursery Cryme)
The Knife (da Trespass)
Seven Stones (da Nursery Cryme)
Twilight Alehouse (lato B di I Know what I like)
Can-Utility and the Coastliners (da Foxtrot)

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