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Sostenibilità e Gen Z: consumatori e attivisti. Una generazione formata nell’emergenza

di Pasquale Colello
 
Sostenibilità e Gen Z: consumatori e attivisti. Una generazione formata nell’emergenza

La Generazione Z, composta dai nati tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del 2010, è cresciuta in un contesto in cui la crisi climatica non è una previsione ma una condizione in atto. Gli effetti sono visibili, documentati, discussi: ondate di calore anomale, riduzione delle risorse idriche, eventi meteorologici estremi. Secondo il rapporto IPCC 2023, il cambiamento climatico non rappresenta più una minaccia futura, ma un fenomeno “irreversibile su scale temporali umane”.

Questo dato incide profondamente sui giovani: se il passato poteva immaginare la crescita come espansione illimitata, la Gen Z concepisce il futuro come qualcosa da preservare, non semplicemente da costruire. Non sorprende, allora, che per questa generazione la sostenibilità non sia “un tema tra gli altri”, bensì la condizione di base per qualunque forma di attività economica. Ciò che non è sostenibile appare non soltanto discutibile, ma privo di legittimità.

Il consumo come gesto identitario

Il consumo non è più un’azione neutrale. Scegliere un prodotto significa prendere posizione, costruire un’immagine di sé, dichiarare appartenenza.

Secondo una ricerca Deloitte 2024, il 58% della Gen Z afferma di “aver rifiutato l’acquisto di un brand nell’ultimo anno per motivi etici o ambientali”. Questo dato segnala un passaggio culturale: la qualità non si misura solo in termini di performance o estetica, ma in termini di coerenza tra ciò che un marchio promette e ciò che effettivamente produce nel mondo. La reputazione aziendale diventa dunque una forma di controllo sociale diffuso, alimentato da piattaforme in cui tutto è documentabile, confrontabile e giudicabile.

Greenwashing: la crisi della fiducia

Molte aziende hanno risposto alla crescente domanda di sostenibilità adottando linguaggi “green”, talvolta senza trasformare la sostanza dei propri modelli produttivi. La Commissione Europea ha rilevato nel 2021 che il 42% delle dichiarazioni ambientali dei brand è “esagerato, falso o ingannevole”.

Lo si vede nelle campagne pubblicitarie che parlano genericamente di “materiali riciclati”, “rispetto per la natura” o “riduzione delle emissioni”, senza fornire dati verificabili o parametri di misurazione trasparenti. Tuttavia, la Gen Z si rivela particolarmente impermeabile a queste narrazioni superficiali. Ecco che l’abitudine a cercare informazioni online, e in particolare sui social, confrontando diverse fonti indipendenti permette di raggiungere un livello di consapevolezza riguardanti le scelte di sostenibilità di un determinato brand e un atteggiamento critico dinanzi ai suoi slogan che prima non era possibile.

Oggi non basta dichiararsi sostenibili, la Gen Z è particolarmente attenta a distinguere tra impegno reale e retorica: non crede alle formule generiche, non accetta “promesse”, chiede tracciabilità, report di impatto, metriche verificabili. L’attenzione non è sul messaggio, ma sul processo.

La frattura evidente: il fast fashion

Il caso del fast fashion è emblematico. L’industria della moda produce 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili ogni anno (Global Fashion Agenda, 2023) e contribuisce per circa l’8-10% delle emissioni globali di CO₂, più del settore aereo e navale insieme. Oltre a ciò, il 60% dei capi oggi venduti contiene poliestere, fibra derivata dal petrolio, e richiede tempi di decomposizione che superano i decenni.

Il fast fashion ha democratizzato l’accesso allo stile, ma ha costruito il proprio modello su:

• produzione accelerata;

• prezzi compressi;

• sfruttamento della manodopera in paesi a basso costo;

• rifiuti sistemici e insostenibili.


La Gen Z contesta apertamente questo sistema, ma non opponendosi al consumo in sé: proponendo nuove estetiche. Il second-hand diventa stile, la riparazione diventa gesto creativo, il “meno ma duraturo” sostituisce l’“usa e getta”.

Dalla critica alla creazione: le startup della Gen Z

Ma il punto di rottura più significativo è forse un altro: la Gen Z non si limita a selezionare in modo più critico i brand già esistenti. Quando il mercato non offre soluzioni coerenti con i propri valori, li produce. È qui che nasce un’intera nuova generazione di startup fondate da under 30, spesso nate non per inseguire una moda, ma per rispondere a un problema concreto: l’inquinamento da plastica, lo spreco nel settore moda, l’impatto ambientale della logistica, la difficoltà di tracciare l’origine dei materiali, la necessità di modelli di consumo più circolari.

Si pensi, ad esempio, a Notpla, la start-up londinese fondata da due studenti universitari che ha sviluppato imballaggi biodegradabili a base di alghe, capaci di sostituire la plastica monouso nella distribuzione alimentare. Oppure a Depop, il marketplace di moda second-hand nato da giovanissimi designer italiani e britannici, oggi diffuso globalmente, che ha reso normale la ri-circolazione dei capi come gesto identitario oltre che sostenibile.

In Italia, Womsh propone sneakers vegane e interamente riciclabili, mentre Veralab Green lavora su formulazioni cosmetiche a basso impatto e su filiere controllate. Altre realtà emergenti, come Krill Design, trasformano gli scarti della filiera agroalimentare in oggetti di design tramite la stampa 3D, dimostrando come la creatività possa diventare un vero dispositivo di rigenerazione.

Queste imprese non si propongono come “meno dannose” rispetto a ciò che esiste, ma come alternative reali, progettate per ridurre o eliminare l’impatto negativo sulla società e sull’ambiente. Non sostituiscono semplicemente un prodotto con un altro: riscrivono la logica produttiva che lo rende possibile.

Una nuova legittimità economica

La Gen Z, dunque, non si limita a modificare la domanda: modifica il quadro normativo della legittimità economica. Un’azienda non è più giudicata solo per ciò che vende, ma per il modo in cui esiste nel mondo. La sostenibilità non è un vantaggio competitivo: è la soglia di ingresso.

Il mercato si sposta così dal paradigma della crescita quantitativa al paradigma della qualità relazionale: con l’ambiente, con i lavoratori, con i territori.

Conclusione: una generazione che costruisce futuro

In definitiva, la forza della Gen Z sta nella sua capacità di agire su due livelli contemporaneamente: critica e costruzione. Critica i modelli che considera insostenibili, rendendo evidente ciò che per anni era stato nascosto dietro il linguaggio del marketing e delle promesse futuribili; ma allo stesso tempo costruisce alternative che non appartengono soltanto al domani, bensì al presente. È una generazione che rifiuta il fatalismo e che non delega ad altri il compito di immaginare soluzioni. Così, il mercato non cambia semplicemente per adattarsi alle loro preferenze: cambia perché i giovani ne ridisegnano le fondamenta. La sostenibilità non è più un valore accessorio, è il nuovo criterio di realtà. E il futuro, a ben vedere, è già iniziato.

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