In reazione alle politiche commerciali imprevedibili di Donald Trump e ai timori per una recessione degli Stati uniti, sempre più investitori internazionali hanno iniziato a guardare maggiormente all’Europa e, in particolare, all’Asia, un mercato in cui la Cina si sta consolidando sempre di più come pilastro di stabilità.
Eppure, appena un anno fa la Cina sembrava un’economia nella quale investire era impossibile, zavorrata da una crisi senza fine del settore immobiliare e da incertezze politiche, di governance interna e anche geopolitiche, in quanto percepita come molto vicina alla Russia. Oggi, invece, molte banche internazionali affiggono un rating “buy” sull’azionario del paese, innalzando le aspettative sui rendimenti per la fine dell’anno tra il 10% e il 15%.
Ma come è possibile che l’outlook sul Dragone asiatico abbia fatto questa inversione a U in così poco tempo? I motivi sono principalmente tre.
Il primo è una ritrovata credibilità, generata dai piani di stimolo economico, monetario e fiscale volti a supportare le banche, il real estate e anche i consumi di determinate categorie di prodotti. Compiendo un’ulteriore giravolta rispetto al passato, il presidente Xi Jinping ha anche annunciato la sua intenzione di voler sostenere il settore privato. Tutto ciò ha permesso di ottenere prospettive di crescita del Pil solide (+5,5% annuo secondo le stime attuali), al di sopra anche dei target governativi.
Il secondo fattore riguarda il settore del tech, nel qual la Cina è riuscita ad affermarsi prepotentemente come un player di primo piano, soprattutto in segmenti chiave quali l’intelligenza artificiale, le auto elettriche, la robotica, i droni e i pannelli solari, con le aziende locali che sono sempre più riconosciute come concreti competitor dei colossi americani.
Il terzo e ultimo elemento sono le valutazioni, con l’azionario cinese che appare ancora alquanto sottostimato, in particolare rispetto alla controparte statunitense. Nonostante il rally registrato a metà gennaio, il comparto sembra presentare ancora margini di guadagno, con il P/E ratio dell’indice MSCI China stimato attorno a 12,5 e con una crescita degli utili tra il 7% e l’8%.
Oggi, però, la domanda che tutti si pongono è se e quanto l’annuncio di aumento dei dazi tra il 20% e il 54% sulle merci che dalla Cina entrano negli Stati Uniti impatterà sulla prima. Al momento è impossibile dare una risposta sensata, anche perché non si può escludere che siano un pretesto per avviare delle contrattazioni. In ogni caso, è altamente probabile che il governo di Pechino adotterà provvedimenti aumentando gli stimoli fiscali a supporto della crescita. Al tempo stesso, la diversificazione delle esportazioni proseguirà assieme alla cooperazioni con altre aree del mondo.
In definitiva, una politica sui dazi molto aggressiva e un quadro geopolitico estremamente caotico stanno sollevando dubbi e accrescendo la volatilità sui mercati. Gli investitori statunitensi si sono pesantemente sovraesposti alle azioni domestiche per almeno un decennio, ma oggi sembrano star riscoprendo i benefici della diversificazione internazionale. Pertanto, in un contesto come quello attuale, riteniamo che le azioni asiatiche possano portare grandi benefici in un portafoglio e in particolare quelle cinesi.