Il conferimento del premio Nobel a Bob Dylan nel 2016 fu motivato dall’Accademia di Svezia per il fatto che il grande cantautore di Duluth aveva «creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana». E in effetti, questa “consacrazione” equivale al riconoscimento del valore poetico che può essere attribuito ai testi di molte canzoni d’autore (in inglese non a caso definite lyrics, dal greco λυρικός, accompagnato con la lira. Non si dimentichi che nella tradizione occidentale, dalla Grecia in poi, non era infrequente l’accompagnamento musicale di ogni recitazione poetica). E Dylan non è il solo cantautore ad aver scritto testi di notevole valore letterario. Per restare solo in ambito anglosassone, si pensi a Leonard Cohen, che esordì prima come poeta che come cantautore, con le due raccolte poetiche Let Us Compare Mythologies e The Spice-Box of Earth, nel 1956 e nel 1961, mentre il suo primo disco – che riutilizza i testi di molte poesie – è del 1967 (Songs of Leonard Cohen). Ma a nostro modesto parere tra i cantautori di lingua inglese i cui testi posseggono un indiscutibile valore poetico, si staglia la figura di Peter Hammill, noto a suo tempo soprattutto come frontman del gruppo progressive Van Der Graaf Generator, ma che vanta una costante e pluridecennale carriera solista composta da decine di dischi del tutto alieni dal mainstream commerciale, con testi poetici che ricordano quelli di Wystan Hugh Auden o di Wallace Stevens, e sono spesso compenetrati da profonde e variegate riflessioni filosofiche. Benché, come lo stesso Hammill ebbe a rilevare, «le affermazioni non sono quello per cui le canzoni sono adatte. D’altra parte è difficile scrivere un saggio sul Dubbio. Ma le canzoni lo fanno perfettamente» («Statement just isn’t what songs are good at. It’s hard to write an essay, on the other hand, about Doubt. But songs do that perfectly»).
A metà novembre, dopo aver girato la boa dei settantasei anni, Hammill è tornato a esibirsi in Italia, in quella che ha preannunciato come forse l’ultima tournée della sua carriera, a distanza di due anni dall’ultimo concerto insieme al suo vecchio gruppo, i Van Der Graaf Generator (2022), e di sette anni dall’ultima sua esibizione solista a Roma (2017). Peter Hammill ha scelto come venues per i suoi concerti alcuni ambienti artisticamente preziosi (come il Complesso Monumentale Donnaregina a Napoli o la Sala dei Giganti del Palazzo Liviano a Padova, di solito utilizzata per concerti di musica classica) o acusticamente perfetti, come l’Auditorium Parco della Musica di Roma. Noi lo abbiamo seguito in due concerti, con scalette molto differenti, come sua abitudine, quello romano del 14 novembre e quello fiorentino del 20 novembre, di entrambi i quali ora presenteremo i momenti più significativi.
La sera del 14 novembre, il Teatro Studio “Borgna” dell’Auditorium di Roma ha accolto il leggendario cantautore britannico per una performance che ha saputo mettere in evidenza in modo compiuto la sua poetica musicale e le sue doti vocali, ancora intatte: quasi in una triade di analisi interiore, intensità vocale e grande onestà artistica, il concerto, nonostante l’apparente varietà delle canzoni, si è rivelato una sorta di longform, con un’ora e mezza di tensione vibrante e profondità interpretativa. In un’atmosfera che ricordava più una sala teatrale per Kammerspiel che uno show di musica pop, Hammill, presentatosi da solo con pianoforte a coda e chitarra acustica, ha dimostrato come la potenza espressiva non necessiti di inutili orpelli.
Il pubblico di circa 300 persone, composto prevalentemente da spettatori tra i 45 e i 50 anni, ha mantenuto un silenzio quasi religioso, interrompendo i momenti più significativi solo con applausi sinceri e calorosi: sembrava un pubblico di musica classica, ma con rituali e modi più simili a coloro che continuano a rimpiangere la giovinezza perduta. Hammill, vestito in bianco e un pochino segnato dall’età, e pur tuttavia sempre magro e agile, ha mostrato una voce ancora in eccellente forma e collaudate capacità esecutive, confermando di essere sempre un maestro nel trasmettere emozioni. Peraltro, vedendolo approssimarsi al pianoforte con i capelli bianchi e lunghi, ci è venuto in mente che somiglia in modo impressionante a quello che avrebbe potuto essere lo scrittore austriaco Thomas Bernhard se fosse vissuto più a lungo. Il paragone non sembri inusuale: è impossibile non notare una simile Stimmung nella declinazione dei momenti dell’esistenza umana e un analogo mood che si respira nei testi dei due artisti, soprattutto se ci si accosta ad alcuni dei romanzi di Bernhard, come Espiazione, Gelo, o Il soccombente: in entrambi, ci sembra, si avverte la consapevolezza che l’arte possa avere una funzione salvifica, non disgiunta dall’idea sotterranea per cui questa salvezza, in realtà, alla fine rischi di rivelarsi una finzione. Una finzione e un fallimento che però permettono la sopravvivenza dell’umanità e rendono la vita più sopportabile. Entrambi esplorano temi universali di alienazione, solitudine, fragilità umana e resistenza contro un mondo spesso percepito come insensato od ostile. Come scrive Bernhard, «Da una oscurità che non è possibile padroneggiare neanche nell’arco di una vita intera, e che infine è diventata totalmente impossibile da padroneggiare, si dovrebbe entrare nell’altra, nella seconda, nell’oscurità finale» (Tre giorni) [«Man musste aus der einen Finsternis, die zu beherrschen einem zeitlebens unmöglich ist, schließlich total unmöglich geworden ist, hineingehen in die andere, in die zweite, in die endgültige Finsternis» (Drei Tage)]. Sia Bernhard, sia Hammill sono consapevoli che siamo impotenti contro l’oscurità finale, gradualmente impegnata a divorare le nostre vite. Possiamo solo andarvi incontro, coltivandola attraverso il compito della nostra vita.
E non a caso il brano di esordio del concerto è proprio incentrato su questi temi, alla luce della Solitudine e dello Smarrimento. Si tratta di “My Room (Waiting for Wonderland)”, una ballata riflessiva tratta da uno straordinario disco dei Van Der Graaf Generator: si tratta di Still Life, uscito nel 1976, e che, nella title track omonima, si è cimentato niente meno che nella parafrasi della novella L’immortale di Jorge Luis Borges. La ballata “My Room”, con il suo tono meditativo, è stata eseguita in modo tenue e scarnificato, con il pianoforte che ha sottolineato la malinconia e l’isolamento del testo: un’introduzione perfetta alla serata. Senza tutti gli arrangiamenti progressive che lo avevano reso anche musicalmente sublime, Hammill lascia parlare il testo, che rifulge nella sua autonomia poetica. Il sottotitolo (“Waiting for Wonderland”) si richiama all’album Over, dove Hammill descrive l’angosciosa separazione dalla sua compagna di allora, Alice: unendo il nome a questo sottotitolo, il riferimento alla Alice nel paese delle meraviglie (Alice’s Adventures in Wonderland) di Lewis Carroll è quanto mai evidente.
La stanza di cui si parla è interpretabile come una metafora atta ad esprimere una radicale solitudine esistenziale e psichica. Non si tratta di una stanza fisica, sia pur abitata da fantasmi e spettri, ma di un luogo irreale, freddo e oscuro in modo inquietante, dove si attende invano il ritorno della persona amata (la donna amata da Hammill quando scrisse la canzone, che si chiamava proprio Alice): il paese delle meraviglie, la Wonderland tanto desiderata, si è eclissata per sempre. Rimane solo la stanza in cui l’io del poeta/cantore può corrodersi ed angosciarsi in un’attesa infinita, consacrandosi a un’esistenza simile a quella del passeggiatore solitario di Jean-Jacques Rousseau o del Marcel della Recherche du temps perdu proustiana: oppure, scindendo sé stesso, può sperare nell’amore di un’altra persona:
«Lost in a labyrinth of future mystery,/tracing my steps, all mistaken,/trusting to everything, praying it can be/that I am not forsaken,/I wait by the door, /wondering when you will come and keep me warm» («Perso in un labirinto di futuro mistero,/ ritrovando i miei passi, ogni cosa è confusa, /fidandomi di tutto, pregando che possa darsi/che io non venga abbandonato, /io attendo alla porta, /domandandomi quando verrai a tenermi caldo»).
Alla fine rimangono soltanto “sogni, speranze e promesse, frammenti estratti dal tempo” («Dreams, hopes and promises, fragments out of time»).
Il secondo brano è la struggente ed insinuante “The Siren Song”, originariamente suonata dai Van Der Graaf Generator (nell’album del 1977 The Quiet Zone/The Pleasure Dome), con un’essenziale parte strumentale affidata ai violini, ma qui riverberata solo dalle note cristalline del pianoforte e dalla voce versatile e lanciata in vertiginosi falsetti. È un racconto sulla seduzione e sull’attrazione irresistibile verso ciò che potrebbe portarci alla rovina: la natura delle nostre ossessioni e dei nostri motivi di attrazione verso ciò che è più inquietante e perturbante (lo Uncanny/Unheimliche del celebre saggio di Sigmund Freud). L’interpretazione è stata insieme soave e carica di tensione, evocando un’idea di pericolo sottile ma persistente. La melodia si dipana in modo così ammaliante e seducente che viene quasi spontaneo pensare che lo stesso Odisseo abbia ascoltato qualcosa di simile quando si fece legare all’albero maestro per non cadere vittima delle sirene, pur continuando a sentire il loro canto. Episodio cui alludono sicuramente i versi hammilliani: «though I’m lashed to the mast/still it hammers round my brain» («benché io sia avvinto all’albero maestro/mi martella ancora nel cervello»).
Il terzo brano è “Just Good Friends”, dal disco Patience, che verrà, per altri brani, riproposto varie volte. È uno sguardo lucido e disilluso sulle relazioni e sulla loro ambiguità. Il pianoforte solo ha conferito al pezzo un’intimità particolare, sottolineando la sincerità del testo: una relazione extraconiugale viene delicatamente accennata con pennellate che riprendono il tema della stanza: qui siamo in una camera di hotel assurta ad allegoria di una delle tante stazioni del viaggio della vita umana:
«Drawing back the curtains, /sluggish city daylight in the afternoon.../here’s that special silence, /just before you walk out of the hotel room» («Tirando indietro le tende, / l’indolente luce diurna della città ristagno nel pomeriggio... / Ecco quel silenzio particolare, / poco prima che tu esca dalla camera d’albergo»).
Sorprendentemente, come Hammill stesso ebbe a dichiarare, la canzone non fu scritta per motivi sentimentali, ma come risposta alle difficoltà finanziarie in cui si trovò all’inizio degli anni ‘80. In una tensione tra il suo futuro nell’industria musicale e l’abbandono della sua amata, Hammill esprime tutte le sue amarezze e i suoi rimpianti.
“The Descent” è il brano successivo, dal recente album From The Trees: si tratta di un pezzo che, nella sua ampia spazialità, ricorda i toni epici dei Van Der Graaf e anche dello Hammill solista meno incline alla malinconia. Ma anch’esso descrive la caduta di un essere umano, usando insieme la metafora della scalata e della discesa. Nella sua oscura drammaticità, il brano esplora temi di perdita e caduta, con il pianoforte che scandisce inesorabile un’esplorazione quasi baudelairiana dell’angoscia: «Only yesterday, you were pegging out your tent/Stood abandoned where you left it in your attempt at the descent» («Soltanto ieri stavi montanto la tua tenda/Che rimase abbandonata dove l’avevi lasciata nel tuo tentativo di affrontare la discesa»). Si tratta dei tradizionali temi della perdita, dello smarrimento e della scomparsa. L’eroe della canzone è un esploratore che non riesce più a respirare a mano a mano che l’aria diventa più rarefatta.
Con il più ritmato brano “Comfortable”, Hammill si interroga su quanto l’essere a proprio agio possa diventare una trappola. La performance ha avuto un tono più ironico e distaccato, evidenziando il paradosso del testo: è un attacco alle religioni istituzionali, con la loro pretesa di offrire consolazioni. Il punto di vista è quello di una donna che vuole solo sentirsi a proprio agio, ma la canzone si dilata, sottolineando la difficoltà di includere in questa visione coloro che aspettano che guariscano le ferite mortali quando l’abisso si avvicina («wait for the mortal wound to heal when the abyss is adiacent»).
Più tenue è “If I Could”: canzone che assume come titolo la protasi di un periodo ipotetico e viene eseguita con una delicatezza struggente che ha lasciato il pubblico rapito. Esprime la lontananza ineluttabile che si apre di fronte a due persone che dichiarano di continuare ad amarsi, ma che in realtà si sentono sempre più distanti, come si evince dai versi: «may my voice fall into silence if my words turn out to be lies» (possa la mia voce cadere nel silenzio se le mie parole dovessero rivelarsi menzogne). Compresa nel disco The Future Now, Hammill con questa song voleva esprimere anche l’antitesi tra l’artista che deve necessariamente concedersi al pubblico con una dose di finzione (come aveva capito Denis Diderot nel celebre saggio Paradoxe sur le comédien [Paradosso sull’attore]) e la sincerità assoluta che bisognerebbe esprimere nei rapporti di coppia.
“Shingle Song”, con il suo testo che evoca immagini costiere e fragilità, ha offerto un momento contemplativo, reso ancora più potente dalla semplicità della chitarra. Appartiene al periodo proto-punk di Hammill, ma qui è suonata in maniera molto “acustica” (unplugged), a declinare la sofferenza per un amore perduto, con il protagonista stretto tra l’impotenza e l’abbandono, e a cui rimangono solo i ciottoli di una shoreline, di una spiaggia deserta. L’uomo che rimane da solo sulla spiaggia ma non vuole allontanarsi («all the elements rage to explain/that I should really be on my way/but there is something/which ensures I must stay» – «tutti gli elementi si affannano a spiegare/che dovrei davvero essere in viaggio/ma c’è qualcosa/che mi obbliga a restare) richiama certi personaggi di Ingmar Bergman,
La delicatissima eroina shakespeariana dall’Hamlet, è il tema della successiva ballad, “Ophelia”: la giovane donna viene trasfigurata mentre viene trascinata dalla corrente del fiume («down the river Ophelia goes»). Qui l’influenza della poesia shakespeariana su Hammill emerge in modo evidente. Il richiamo all’immagine della figura tragica è stato reso con una grazia inquietante, con una dichiarata ispirazione anche ai quadri dei pittori preraffaelliti John Everett Millais e John William Waterhouse.
Un livello poetico (e filosofico) ancora più alto viene raggiunto in “Driven” (da Clutch), con una serie di profonde riflessioni sul libero arbitrio. Notevole la considerazione per cui in qualche maniera siamo condizionati deterministicamente dal nostro stesso Io: non ci sono affermazioni che possano farci deviare dalla strada a cui siamo stati ancorati. Ma a fissarci è stato il nostro Io, che ci ha quasi pilotato: «I’m driven by my younger self into a corner./I remember dreaming the open road./I liked to think I had control but my hands on the wheel were guided by some outside force as my future revealed» («Sono guidato dal mio io più giovane in un angolo./Ricordo di aver sognato la strada aperta./Mi piaceva pensare di avere il controllo, ma le mie mani sul volante erano guidate da qualche forza esterna, come il mio futuro ha rivelato): qui viene espressa l’illusione del libero arbitrio in termini che ricordano Arthur Schopenhauer. Siamo, del resto, come voleva il filosofo William James (fratello dello scrittore Henry James, che sosteneva tesi analoghe), una costellazione di io, presenti e passati: «We’re driven by our older selves into what we become/and all our careful planning turns out strictly rule of thumb./We’re driven by ourselves but dream we’re free, on the open road» («Siamo spinti dal nostro io più antico a diventare ciò che diventiamo, e tutta la nostra attenta pianificazione si rivela una regola rigorosamente empirica./Siamo spinti da noi stessi ma sogniamo di essere liberi, sulla strada aperta»).
“Gone Ahead”, è il pezzo che davvero avvicina Hammill alla poetica wittgensteiniana di Thomas Bernhard. Tratto dall’ambizioso album Incoherence (di recente ristampato con inediti), dedicato al tema del linguaggio, esprime la convinzione per cui l’unica vera risposta al problema del linguaggio sarebbe il silenzio: «when the time comes to be silent.../one by one the jaws all drop» («quando arriva il momento del silenzio.../uno ad uno cadono tutti a bocca aperta»).
“Patient” lo vede ancora alla chitarra, ad esprimere un pessimismo cosmico che potremmo definire leopardiano: «but Nature’s not your mother now,/just your suckling nurse» («la Natura non è tua madre ora,/ma soltanto la tua nutrice»). Tra i momenti più toccanti della scaletta, questa canzone ha esplorato la vulnerabilità e la resilienza, con una vocalità che ha toccato il cuore del pubblico.
“A Better Time” è una canzone ancipite, tutta oscillante tra speranza ottimistica e timore pessimistico, dove il principio di causalità («all we prize and protect [is] only cause and effect» – «tutto ciò cui diamo un prezzo e proteggiamo [è] soltanto causa ed effetto») viene collocato in un orizzonte dove sembra esserci posto per una finalità, forse trascendente. Tuttavia, nei versi «I’ll never find a better time to be alive than now» si nasconde un pericolo “logico”: mentre le cose certamente non potranno essere migliori, dall’altra parte non potranno neppure essere peggiori, sicché appaiono consegnate a una fredda immutabilità.
Eteree risuonano poi le note del pianoforte a scandire “A Way Out”: fuori di sesto (out of joint, come il tempo in Shakespeare – «The time is out of joint», Hamlet, atto I, scena 5, v. 188 –, e come recita il titolo del libro di Philip Dick Time out of joint, Tempo fuor di sesto, 1959) appare ogni illusione umana; non c’è nulla a cui aggrapparsi, né un paracadute a frenare il nostro precipitare. Perché, come dice la successiva canzone, siamo ancora estranei (“Stranger Still”), in un mondo dominato dall’entropia. Qui Hammill si è addentrato in territori più cupi, esplorando l’idea di fuga e libertà con una tensione palpabile.
Con “Traintime”, l’energia narrativa di questo brano ha dato un colpo di coda emozionante alla serata, prima del bis: considerazioni tratte dalla fisica einsteiniana si intrecciano con i tradizionali problemi dell’incomunicabilità umana. Come il tempo sul treno appare più lento al passeggero che si trova sul marciapiede, così ogni messaggio veicolato con un telefono elettromagnetico dal viaggiatore sul treno raggiungerà la persona sul marciapiede come se fosse un rumore di fondo di tonalità bassa, temporaneamente prolungato e difficilmente distinguibile dai disturbi atmosferici, dai fili ronzanti o dal rumore dello stesso treno; ogni tentativo di confinare nel silenzio il passaggio del tempo («shouting down the passage of time») si rivela inutile. Il pezzo si ispira peraltro alla Toccata Op. 11 di Sergej Prokof’ev (1912), e richiede un grande virtuosismo, almeno all’inizio, quando l’esecutore deve ripetere spesso le stesse note, attraverso un interscambio tra la mano destra (che suona una singola nota) e la mano sinistra (che suona la stessa nota con un’ottava più bassa).
La scelta del bis (“Modern”) è stata significativa: è un brano che unisce la critica e la riflessione sull’alienazione contemporanea. Hammill, solo con la chitarra, ha regalato una performance che sintetizzava il tema della serata: la condizione umana in tutta la sua complessità. Il brano, peraltro, proviene dal più “abissale” disco della sua immensa produzione, il cupissimo e tenebroso The Silent Corner and the Empy Stage: visioni di città che sembrano al contempo uscire da film come Metropolis di Fritz Lang o Blade Runner di Ridley Scott, e da un poema The Waste Land di Thomas Stearns Eliot, si alternano con il mito di Atlantide e il simbolismo biblico incarnato in Gerico o Babilonia, quasi come accade nei dischi del gruppo di folk “apocalittico” Current 93 di David Tibet, che presenta alcune affinità con questa poetica musicale. La città diventa comunque un non luogo da incubo, in cui «all the citizens are contagiously insane»”. Ma ben presto si arriva alla tesi per cui le città antiche alludono alla disperazione della modernità, in cui «the life is false, it’s killing me».
Abbiamo poi assistito al concerto fiorentino, tenutosi in una location particolare e semiperiferica, rispetto all’autentico centro storico di Firenze: il teatro Puccini, piccolo gioiello di archeologia industriale ricavato nello spazio dopolavoro dell’ex Manifattura tabacchi in via delle Cascine.
Hammill qui ha esordito con “Don’t tell me”, canzone, nella sua apparente semplicità, intrisa di un dolore lancinante. Non è un caso che l’abbia assunta spesso a brano di esordio dei concerti: è una ballata pianistica che, con vertiginosi cambi di dinamica, gli permette di dilatare la voce e di valutare l’acustica della sala. Il tema ruota anche qui intorno ai traumi della gelosia: in una terra desolata determinata dalla comunicazione perduta o interrotta, la parte più angosciosa è quasi inavvertitamente scandita dagli ultimi due versi: «you don’t even tell me/the bell won’t ring» («non mi dici nemmeno/che il campanello non suonerà»), evento che annulla anche ogni residua speranza di conforto».
Dopo “The Siren Song”, eseguita anche a Roma, è stata la volta di “Curtains”: tratta dall’album Fireships, questa canzone potrebbe benissimo fungere da atto unico per una breve rappresentazione teatrale, perché si svolge in una sola stanza, da dove i protagonisti, Sylvia e Tommy, esitano a partire, per una strana mancanza di forza interiore. Del resto, «hanno corso da anni/per trovare un qualche tipo di brivido/per sottrarsi al vuoto/che entrambi sentono dentro./Traendo la finzione dai fatti reali/l’immagine è una messinscena/ma ora la cornice è tutta incrinata» («they’ve been running for years/to find some kind of thrill/to take away the emptiness/that they both feel inside./Making the fictional/out of the matter of fact;/masquerade the picture/but now the frame’s all cracked»). Nell’atteggiamento statico dei personaggi, si sentono echi di Harold Pinter o di Samuel Beckett. Ed è probabile che dietro Sylvia e Tommy si nascondano i poeti Sylvia Plath e suo marito Tommy Ted Hughes, che raccontò in versi la sua complessa relazione con la moglie nel suo ultimo libro di poesie, Birthday Letters.
Il brano successivo, “Mirror Images”, è tratto dal disco pH7: il narratore sembra aver attraversato una grave crisi mentale, quello che comunemente si chiama un esaurimento nervoso devastante. Guardandosi allo specchio, riesce solo a percepire sé stesso come vittima di un naufragio, che non ha raggiunto né la salvezza, né la libertà. Attacca poi le con le smancerie infantili e le pretese di angoscia di sé stesso riflesse nello specchio («with your infant pique and your Angst pretensions»), «guardando la stanza e i mobili in un’imitazione a buon mercato dell’alienazione e del dolore («looking at the room and the furniture in cheap imitation of alienation and grief»): quasi una caricatura dell’intellettuale esistenzialista perennemente depresso.
Le successive “The Habit of the Broken Heart” e “(On Tuesdays She Used to Do) Yoga” costituiscono quasi un dittico della disperazione. Notiamo nel testo della prima canzone un riferimento alla cosiddetta “virtù sterile” («E c’è una roccia di sterile virtù/
al centro della baia» - «And there’s a rock of sterile virtue/in the centre of the bay»), dove, oltre all’allusione ad alcuni testi biblici e all’impossibilità di procreare, ci sembra ci siano anche riferimenti all’impossibilità che in molti casi la virtù produca frutti positivi (come nel Bruto minore di Giacomo Leopardi: «stolta virtú, le cave nebbie, i campi/dell’inquiete larve/son le tue scòle», vv. 16-18). Nella seconda canzone, accenni al tema dell’infedeltà («Though I’d cheat, I never lied» - «Sebbene avessi tradito, non ho mai mentito») si combinano con toni da mini-dramma domestico, à la Harold Pinter.
Con “I will find you”, ci spostiamo verso il terreno, meno sdrucciolevole, della pop song, in cui Hammill, per una volta, tratteggia momenti di intimità e di sentimenti piacevolmente amichevoli.
Ma con la successiva “Like Veronica” andiamo incontro al tema drammatico della violenza sulle donne: l’accenno è a Veronica Lake, un’attrice antesignana del cosiddetto peekaboo style, ossia di un’acconciatura dei capelli che copre parzialmente un occhio. Ma poi il testo, di grande efficacia, si rivela una requisitoria implacabile contro quegli uomini che salutano le donne con un “Glasgow Kiss” (eufemismo per “pugno sul naso”): di un uomo del genere si deve dire che «he’s only in love with his fists» («ama solo i suoi pugni»).
Il livello si alza, dal punto di vista “filosofico”, quando Hammill intona “The Comet, the Course, the Tail”: è un autentico e profondo poema che canta accompagnandosi con lo strumento quasi solo per sottolinearne i momenti più drammatici. Viene articolata una riflessione sul libero arbitrio e sull’impossibilità di predeterminare le nostre azioni future, fino agli inquietanti versi finali: «How can I tell that the road signed to hell/doesn’t lead up to heaven?/What can I say when, in some obscure way,/I am my own direction?» («Come posso dire che la strada segnata verso l’inferno non conduca in alto al paradiso? Che cosa posso dire quando in una qualche maniera oscura io sono la mia propria direzione?»). L’occasione per comporre la canzone fu l’apparizione della cometa di Kohoutek nel 1973, visibile per la prima volta dopo 150.000 nella notte stellata. Il testo di Hammill specula su ciò che chiama “the founding question”: ossia, se credere in un ordine sociale sia compatibile con l’autonomia dell’individuo e con il libero arbitrio. E se la nozione per cui “io sono la mia propria direzione” abbia valore nel contesto di un mondo in cui, come Hammill sottolinea acidamente «all corpses smell the same» («tutti i cadaveri hanno lo stesso odore»).
Con “Time to Burn” si torna all’elegia, in memoria dell’amico musicista Tony Stratton-Smith, morto prematuramente a 53 anni: la canzone è dominata dal triste pensiero che «tante cose sono rimaste in sospeso» («so much left undone»). È una canzone di rimpianti, di situazioni che si vorrebbe che accadessero di nuovo («so much time wishful thinking») o perse nel turbine del déjà-vu («in the whirlwind of déjà-vu»). Si nota anche una raffinata concezione del tempo soggettivo: il passato non è più qualcosa di incapsulato («all the memories free in one bound», « tutti i ricordi liberi in una sola volta»), il futuro non è più un buco nero che minaccia la salute mentale e il presente è il luogo dove sopravvivere e vivere, nonostante l’incombenza della morte. Di conseguenza, il titolo è aperto a due interpretazioni: “time to burn” nel senso di tempo da risparmiare, vuoto e da non utilizzare, in definitiva inutile. E “time to burn” nel senso di tempo da bruciare, da consumare in reazioni chimiche, segni di una vita sensibile e piena di senso.
Quasi inattesa arriva, scandita da rintocchi di pianoforte drammatici e quasi funerei, “Four Pails, il cui testo è accreditato da Hammill a Chris Judge Smith, altro musicista cofondatore dei Van Der Graaf Generator (con la collaborazione dell’architetto Max Hutchinson). Probabilmente è stato scritto a sei mani, ma la voluta incertezza sulla autorialità si riflette anche nelle tesi espresse: il titolo (quattro secchi d’acqua) si riferisce alla quantità di acqua di cui il corpo umano è approssimativamente composto. È una canzone sull’esistenza fisica dell’uomo e in apparenza nega con decisione ogni idea metafisica sulla vita dopo la morte, rivendicando la natura biologica dell’essere umano, anche con riferimento all’amante di chi canta, che ormai ha cessato di vivere:
Four pails of water and a bagfull of salts.
That is all we are, that is all a man comprises,
chemicals alone, with no spirit, soul or ghost -
nothing so bizarre.
No amount of faith disguises
what is true is what we fear the most
Nothing can survive
save the things men leave behind them.
Any other case would be really too absurd -
if thoughts remained alive
surely modern science would find them?
No, the soul is nothing but a word.
(Quattro secchi d’acqua e un sacco pieno di sali.
Questo è tutto ciò che siamo, questo è tutto ciò che un uomo comprende,
solo sostanze chimiche, senza spirito, anima o fantasmi -
niente di così bizzarro.
Nessuna fede può mascherare che
ciò che è vero è ciò che temiamo di più
Nulla può sopravvivere
tranne le cose che gli uomini lasciano dietro di sé.
Ogni altro caso sarebbe davvero troppo assurdo -
se i pensieri rimanessero vivi
la scienza moderna non li troverebbe?
No, l’anima non è altro che una parola).
Peraltro, l’autore (o gli autori) del testo sembra sostenere l’idea che non esistano l’anima, la vita dopo la morte e neppure Dio: e tuttavia, con calcolata progressione, i versi conducono a una conclusione dove la sicurezza si fa meno evidente. Infatti, il testo si conclude con i seguenti versi: «Ora appaiono domande che razionalmente non posso ignorare.../Il nulla o Dio,/Quale dei due sembra più improbabile?/Una volta avrei risposto chiaramente,/ora penso solo di essere quasi sicuro» («Now questions appear I rationally can’t ignore.../Nothingness or God,/Which of them seems more unlikely?/Once I would have answered clearly, now I only think I’m nearly sure».
Certo, in apparenza, il testo sembra sostenere un’interpretazione atea o materialista della vita: l’essere umano è solo materia, e la morte rappresenta la fine totale, senza alcuna sopravvivenza spirituale o trascendente. I versi «That is all we are, that is all a man comprises, / chemicals alone» riflettono una visione simile a quella di Lucrezio, secondo cui l’anima non è immortale ma una composizione di atomi che si disperdono alla morte.
Ma gli ultimi versi indicano il fatto che, sebbene l’autore possa aver creduto fermamente nella non esistenza di Dio o dell’anima, ora nutre dei dubbi: la canzone potrebbe quindi essere un’esplorazione del conflitto tra certezza scientifica e il dubbio spirituale: il narratore/poeta non sostiene necessariamente la presenza di un’anima o di Dio, ma non è più sicuro che il nulla sia l’unica opzione, fino a incrinare il suo stesso materialismo rigoroso. Si nota una tensione tra la consapevolezza di ciò che siamo fisicamente e il significato emotivo e personale che diamo alle persone nella nostra vita. Anche se siamo “solo” chimica, questo non riduce la portata del significato che le relazioni e le esperienze hanno per noi. È un concetto che, paradossalmente, eleva la nostra capacità di dare senso a ciò che ci circonda, un senso che non è trascendente, ma profondamente umano.
In definitiva, è una riflessione complessa su come affrontiamo la morte e la perdita: il riconoscimento della nostra natura fisica non elimina il valore che creiamo attraverso l’amore e le relazioni.
Inoltre, la canzone sembra costringere a porsi queste domande nel momento in cui l’astratta visione materialista si scontra con l’esperienza reale della perdita. Quando perdi qualcuno che amavi, l’idea che quella persona fosse solo materia diventa difficile da accettare. Nonostante l’apparente certezza scientifica sul corpo, rimane l’interrogativo su che cosa significhi essere coscienti, avere uno spirito, e perché i ricordi e l’impatto emotivo della persona sembrino andare oltre la mera composizione chimica: è la tensione tra il riduzionismo scientifico e il mistero della coscienza, che resta ancora inspiegabile, un tema che tocca profondamente il rapporto tra amore, perdita e significato personale.
Una simile concezione dell’esistenza umana è ravvisabile, ci sembra, nella poesia “Funeral Blues” di W (“Stop all the clocks”), che affronta il tema del lutto e della perdita con una forte enfasi sul vuoto lasciato dalla persona amata. C’è un parallelo nel modo in cui il poema di Auden trasforma la morte di una persona cara in un evento universale, toccando la fragilità della condizione umana:
He was my North, my South, my East and West,
My working week and my Sunday rest,
My noon, my midnight, my talk, my song;
I thought that love would last forever: I was wrong.
(Era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est e il mio Ovest,
la mia settimana lavorativa e il mio giorno di festa,
Il mio meriggio, la mia mezzanotte, le mie chiacchiere, le mie canzoni;
Sbagliai a pensare eterno quest’amore – ora so quanto).
Un ulteriore punto di riferimento interessante per il tema della canzone potrebbe essere il Dialogo di Federigo Ruysch e delle sue mummie di Giacomo Leopardi, il quale esplora la fragilità e la transitorietà della vita umana attraverso una conversazione immaginaria tra un medico anatomista e le mummie. Il dialogo di Leopardi mette in luce la disillusione di fronte alla materialità della vita e la vacuità del corpo una volta privato della sua vitalità. Questo si allinea con il tema di Four Pails, in cui la materialità del corpo viene contrastata con la ricerca di significato e la riflessione sulla permanenza dello spirito.
Dallo disco Thin Air segue la cupa e sombre “The Mercy”: il pianoforte la introduce con un arpeggio desultorio, su cui si innesta la scansione cantata dei versi che alludono anch’essi all’impotenza degli uomini, ai quali non resta che cercare di soccorrere i propri fratelli, benché spesso non siano capaci di rimanere saldi nelle proprie decisioni: «What I once thought was everlasting/all of a sudden been and gone./It is finished, it is finished but mercy’s moving us along./What can you carry for your brother/when you can’t stand up on your own?» («Ciò che una volta pensavo fosse eterno/all’improvviso è stato e se n’è andato./È finito, è finito, ma la misericordia ci fa avanzare./Cosa puoi portare per tuo fratello/quando non puoi stare in piedi da solo?»).
Il concerto sembra concludersi con “Still life” (letteralmente “natura immobile”, ma in italiano si traduce con “natura morta”, soprattutto in riferimento alla pittura), ispirata al racconto “L’immortale”, compreso nella raccolta El Aleph di Jorge Luis Borges: quasi per incantesimo, il pubblico si ammutolisce e cala un silenzio glaciale e rigidissimo su tutta la platea, quasi che il tempo si arrestasse nel momento in cui passato e futuro sono uniti, per dirla con l’Eliot dei Four Quartets («where past and future are gathered»). L’interpretazione è più “borgesiana” che mai: se il tempo della vita umana fosse infinito, esso perderebbe ogni senso, e la tanto desiderata eternità annullerebbe ogni anelito verso il futuro; rimarrebbero solo la generica staticità (inertia) e l’impossibilità di agire, la noia (boredom). All’immortalità biologica si accompagnerebbe, inquietante, l’annichilimento di ogni volontà. Con una purezza che ci lascerebbe sterili («and though purity is maintained it leaves us sterile»), gli immortali hanno sostituito ogni sentimento con il mero calcolo razionale, ma così facendo hanno preso in sposa una natura morta, dalle fattezze stravolte e prive di denti: «the toothless, haggard features of Eternity». Nell’ultimo verso («Hers forever in still life», letteralmente: «suo per sempre, nella natura morta»), la voce di Hammill sembra librarsi in una dimensione di sospesa immobilità metafisica.
C’è però ancora il tempo per un bis: si tratta di “Afterwards”, canzone risalente ai suoi esordi negli anni Sessanta: tratteggiando le incertezze di chi non vuole arrischiarsi in una relazione duratura («I petali che stavano sbocciando sono solo carta nella tua mano» – «The petals that were blooming are just paper in your hand»), Hammill già prefigura la dialettica tra gli aspetti più cupi dell’esistenza umana e la fiducia nel rimanere impavidi e inalterati di fronte a essi..
Peter Hammill si è confermato un artista capace di toccare corde profonde, sia emotive che intellettuali. La scelta di una scaletta essenziale, accompagnata solo da piano e chitarra, ha messo in luce la potenza della sua scrittura e della sua interpretazione. Una serata che ha saputo commuovere e far riflettere, lasciando il pubblico con la sensazione di aver assistito a qualcosa di unico. Un artista che, anche a 76 anni, continua a sfidare i confini tra musica e poesia.
Alcune riflessioni finali per corroborare il paragone con Thomas Bernhard: in entrambi la stanza diventa un luogo di rifugio ma anche di reclusione, un microcosmo emotivo in cui il narratore cerca di dare un senso alla propria vita.
Nei romanzi Gelo (Frost) e Il soccombente, i protagonisti sono intrappolati in uno spazio mentale chiuso, in cui il ritiro dal mondo esterno è sia un atto di protezione sia una condanna. In Gelo, il narratore si isola per osservare l’artista Strauch, che rifiuta qualsiasi contatto con il mondo. Entrambi sembrano sottolineare l’ambivalenza della solitudine: necessaria per la creatività, ma profondamente dolorosa. Hammill con “Comfortable” e “Just Good Friends” delinea una riflessione sull’ipocrisia dei rapporti umani e sul compromesso” come prassi sociale, a volte in contrasto con i bisogni autentici. Il narratore esprime un disagio verso ciò che è facile e accomodante.
Bernhard, dal canto suo, in opere come Espiazione o Antichi Maestri, smaschera la superficialità culturale e sociale, denunciando l’autocompiacimento e la vanità del mondo artistico e intellettuale. Entrambi condividono una visione disincantata della società, spesso descrivendo la vita come una farsa che soffoca autenticità e verità.
Concerto di Peter Hammill, 14 novembre 2024
Auditorium Parco della Musica
Teatro Studio “Borgna”
Fondazione Musica per Roma – Barley Arts
Setlist
1. My Room (Waiting for Wonderland) (Still Life)
2. The Siren Song (The Quiet Zone/The Pleasure Dome)
3. Just Good Friends (Patience)
4. The Descent (From The Trees)
5. Comfortable (Patience)
6. If I Could (The Future Now)
7. Shingle Song (Nadir’s Big Chance)
8. Ophelia (Sitting Targets)
9. Driven (Clutch)
10. Gone Ahead (Incoherence)
11. Patient (Patience)
12. A Better Time (X my Heart)
13. A Way out (Out of Water)
14. Stranger Still (Sitting Targets)
15. Traintime (Patience)
Bis:
16. Modern (The Silent Corner and the Empty Stage)
Concerto di Peter Hammill, 20 novembre 2024
Teatro Puccini, Firenze
Barley Arts
- Don’t Tell Me (Enter K)
- The Siren Song (The Quiet Zone/The Pleasure Dome)
- Curtains (Fireships)
- Mirror Images (pH7)
- The Habit of the Broken Heart (The Quiet Zone/The Pleasure Dome)
- (On Tuesdays She Used to Do) Yoga (Over)
- I Will Find You (Fireships)
- Ophelia (Sitting Targets)
- Like Veronica (None of the Above)
- The Comet, The Course, The Tail (In Camera)
- Time to Burn (In a Foreign Town)
- Four Pails (Skin)
- The Mercy (Thin Air)
- A Way Out (A Way Out)
- Still Life (Still Life)
Bis:
- Afterwards (The Aerosol Grey Machine)