Se non hai almeno l’1% del capitale sociale dell’impresa dove lavori e sei azionista non hai il diritto di dire la tua opinione sull’andamento della società in cui passi la tua vita lavorativa. Questo divieto potrebbe essere contenuto in un provvedimento legislativo del Governo Meloni.
Va subito detto che questa norma va contro un virtuoso cammino di crescita sociale, ancora prima che economica. Infatti, qui, si sta auspicando , a questo proposito, un coinvolgimento dei lavoratori nella governance delle aziende, in particolare delle grandi imprese. C’è la volontà, cioè, di superare i limiti di un capitalismo finanziario la cui legge di comportamento è il profitto per il profitto, senza tenere in considerazione gli interessi sia economici , sia sociali del fattore Lavoro.
La norma va contro il modello USA di coinvolgimento dei dipendenti
Il provvedimento di legge va nella direzione opposta a quella del coinvolgimento dei dipendenti nella determinazione degli indirizzi aziendali.
Va detto , ad alta voce , ai capitalisti e ai loro manager che non è utile all’azienda la chiusura nei confronti dei lavoratori. Ci vuole il dialogo; soprattutto il dialogo perseverante e coraggioso. Invece, l’indifferenza egoista della finanza distrugge lo spirito costruttivo presente nelle comunità territoriali, che sono animate dalle famiglie dei lavoratori ( operai, impiegati, piccoli lavoratori autonomi), che vivono l’impresa. La loro esclusione , come è finora accaduto, favorisce il potere e i vantaggi di pochi detentori del capitale azionario. La cultura dell’incontro, e non dell’esclusione, può, al contrario, generare un futuro di solidarietà sociale, diversamente dalla volontà governativa.
Un provvedimento apparentemente molto tecnico è, invece, la cartina di tornasole di una politica che privilegia gli interessi delle élite, marginalizzando, in questo caso, la dimensione dialogante delle comunità dei lavoratori per attuare nuove modalità di redistribuzione del potere sociale.
La strada da percorrere è quella dell’azionariato popolare e diffuso territorialmente. Una via opposta a quella proposta dal Governo Meloni. Va ricordato, ad esempio, che , tra l’includere o l’escludere i lavoratori e i piccoli risparmiatori, il capitalismo Usa ha scelto il coinvolgimento dei piccoli azionisti, meglio se dipendenti della società. Negli Usa è un’abitudine consolidata l’acquisto, quasi giornaliero, di azioni da parte dei dipendenti. Si realizza, così, una dialettica tra capitale finanziario e risparmio familiare.
Bloccare l’azionariato popolare significa, invece, voler perseguire un modello di sviluppo elitario ed anti democratico. Una bella scossa di destra al sistema sociale italiano.
Va , anche, evidenziato che il quadro internazionale richiede una nuova competitività globale, come risposta alle mosse politiche di Usa, Cina , Russia ed India, mosse finalizzate a un innovativo assetto economico-finanziario globale. Ciò significa per le economie dei vari paesi, in specie per quelle europee, perseguire un ulteriore incremento dei livelli di produttività ,già molto elevati. Ne consegue che il sistema delle imprese italiane ha bisogno di reagire mediante una strategia di crescita, che passa, anche, attraverso l’ottenimento dell’assenso aziendale, per effetto che il capitale e il lavoro si riequilibrano, anche grazie agli investimenti dell’azionariato popolare.
Il Governo Meloni, invece, difende un modello ipercapitalista, che è fuori del tempo.
Il sistema delle imprese italiane ha bisogno di una governance economica che condivida, con tutte le sue componenti, una strategia di crescita duratura. A questo fine, il coinvolgimento del lavoratore-azionista può significare la ricerca di fruttuosi punti di contatto tra capitale e lavoro. È la “cultura dell’incontro” per una società più equa.