Che l’Italia fosse un Paese fondato sulle corna lo sospettavamo da un pezzo.
Ma che potesse commuoversi in massa per quelle degli altri – con tanto di reels in soggettiva, luci da candele Ikea e fazzoletti fradici di struggimento – ci mancava.
Lacrime, corna e reels: l’Italia piange (davvero) per Valerio e Sarah
E invece eccole lì: ragazze, donne, influencer da sottoscala e poetesse da caption, tutte in crisi isterico-emotiva per Temptation Island. Tutte intorno al falò, singhiozzanti come zie al funerale della speranza, in lutto per la povera Sarah, scaricata in prima serata dal fidanzato Valerio dopo un bacio appassionato con la single Ary (bacio si fa per dire).
Una scena che, a detta di molti, ha spezzato i cuori. A detta nostra, ha spezzato le ultime illusioni sulla salute mentale collettiva. Perché se le storie, scritte col bilancino dagli autori della Fascino (leggasi Maria De Filippi) sanno di copione riciclato, le lacrime degli spettatori – in gran parte spettatrici, ahinoi – sono purissime.
E zampillano. Zampillano mentre ci si filma in pigiama, in soggettiva, mentre si urla “Sarahhh ti capiscooo” con in sottofondo l’ennesimo remix straziato e straziante di Tiziano Ferro. Gente con una vita – almeno sulla carta d’identità – che si aggrappa con tutte le unghie all’agonia sentimentale di un ventisettenne, chef per curriculum, golden retriever nello sguardo, che piagnucola, chiede perdono e poi – col pathos di un vocale partito per sbaglio – la molla.
E qui, la domanda è una e una sola: come ci siamo arrivati? Anzi: perché non ci siamo fermati prima?
Del resto, la ricetta è semplice e micidiale. Prendi sei coppie già in bilico, infilale in un resort con tentatori effetto lucido tipo bancone di bar e tentatrici clonate da un catalogo di chirurgia estetica con moralità a noleggio.
Aggiungi telecamere ovunque, qualche canzone strappalacrime nei momenti giusti e voilà: ecco servito il cocktail dell’apocalisse amorosa.
La verità è che Temptation Island non è un programma: è un dispositivo sociale. Una centrifuga del tradimento. Una catena di montaggio per dolore in confezione regalo da scartare su Instagram con filtro Valencia. E il punto non è capire le dinamiche di coppia, che sono sempre le stesse dal tempo delle caverne. Il punto è godere della disfatta.
È il voyeurismo sentimentale portato all’estremo, un’arena dove il pubblico non vuole vedere l’amore che vince, ma quello che frana. Un tempo si applaudiva al Colosseo quando il gladiatore cadeva. Oggi si mettono cuoricini spezzati quando una relazione collassa davanti al falò.
Già, il falò: il vero protagonista di tutta questa liturgia. Il confessionale dei relitti emotivi. Il momento clou, in cui tutto implode con frasi da sceneggiato di bassa lega: “Mi hai distrutta, ma ti amo ancora”, “Io lì dentro ero perso”, “Sono cambiato per te”. Lì dentro dove? Dentro un set, ovviamente. Perché questa non è vita vera. È fiction. Con attori inconsapevoli e pubblico perfettamente addestrato a commuoversi a comando appena parte il violino in dissolvenza.
Ma non è la TV il vero mistero. È la reazione collettiva. Un tempo il dolore per una storia finita si smaltiva a colpi di confidenze tra amiche e un prosecco, magari due e pure tre, se proprio era amore vero. Oggi è engagement, contenuto emotivo da monetizzare. E il tradimento, che nella vita vera scatena piatti lanciati e insulti irripetibili, in televisione diventa lezione di vita, spunto di riflessione (riflessione, oibò) per un pubblico hardcore, quello che si immedesima fino allo spasimo, che vive i drammi altrui come catarsi.
O peggio: come placebo emotivo per un’esistenza talmente piatta e anemica che persino l’angoscia esistenziale ha chiesto il trasferimento. Perché Temptation Island, alla fine, è lo specchio infame del nostro tempo: un teatrino di relazioni fragili, messo in scena per un pubblico fragilissimo, che ha bisogno delle lacrime degli altri per ricordarsi che un tempo ha provato qualcosa. E piange. Sul serio. Non per le guerre, non per Gaza, non per i pensionati in fila alla Caritas. Ma per Valerio. Per Sarah. Per Ary, che a momenti passa da single a Messalina senza nemmeno rendersene conto. E’ l’amore che si fa format.
E funziona, perché dentro ci troviamo tutto quello che ci serve per commuoverci senza impegnarci: lui che tradisce e chiede scusa, lei che piange e impreca e alla fine il solito pippone sulle diverse visioni della coppia. È l’eteronormatività servita in salsa caramellata, baby, con un pizzico di trash per tenere alta l’attenzione. La pantomima dei sentimenti dentro la cornice rassicurante del Mulino Bianco, ma con zizzania, lacrime e una dose industriale di disagio da condividere su TikTok. E allora sì, ridiamoci pure su.
Ridiamo, amaramente, di Valerio che si lancia tra le braccia di Ary come un tredicenne in gita scolastica. Alziamo un sopracciglio per Sarah, che pensava di uscire con l’anello al dito e invece si porta a casa una compilation di umiliazioni. Ma ricordiamoci che l’applauso finale è nostro. Siamo noi che premiamo questa parata di amori preconfezionati, di sentimenti prêt-à-porter e tradimenti in full HD. Perché il grande falò, alla fine, non brucia le coppie. Brucia noi. Noi spettatori, noi consumatori di emozioni altrui, noi che piangiamo con la fotocamera frontale attiva e dimentichiamo tutto entro venerdì, giusto in tempo per farci spezzare il cuore da un’altra storia a uso e consumo dei social. Corna nuove. Lacrime fresche. Cuori infranti, pronti da postare. E via con l’hashtag.