Esteri
Siria: Al-Jolani celebra la "vittoria", ma l'Occidente aspetta le prime sue vere mosse
Redazione
Qualcuno ha detto che Abu Mohammed Al-Jolani, leader del gruppo armato islamico Hayat Tahrir Al-Cham, è arrivato a Damasco dopo un lungo cammino, lui che, negli anni, è stato un fedele seguace del ramo siriano di al Qaeda, per poi prenderne le distanze e, dando prova di intelligenza e opportunismo, riuscire a catalizzare intorno alle sue idee il variegato mondo degli oppositori della dinastia degli Assad.
Un cammino ideologico, religioso, militare, ma anche capace di interpretare il primo assunto di ogni ''rivoluzionario'' che si rispetti: capire che le guerre si perdono se le si fa divisi, ma si possono vincere solo se uniti. E questo lui ha fatto. Che poi abbia approfittato della disorganizzazione dell'esercito siriano, che forse, così come Bashir al Assad, confidava troppo nell'ombrello protettivo russo-iraniano, va tutto a suo merito perché ha scatenato l'offensiva nel momento in cui gli alleati di Damasco hanno altre cose per la testa più che pensare a difenderlo con tutte le loro forze.
Al-Jolani, in favore di telecamere, in tenuta da guerrigliero (camicia e pantaloni kaki, ma, per quello che si è visto, senza portare armi) ha baciato la terra di Damasco, gesto formale di umiltà e appartenenza, ma ha poi scelto per il primo discorso da nuovo leader siriano la maestosa moschea degli Omayyadi, mecca dell'Islam sunnita e gioiello del patrimonio del Paese (quindi: non uno studio televisivo, né un palazzo simbolo del regime appena rovesciato, ma un luogo di enorme importanza religiosa che, con i suoi 1.300 anni, è una delle moschee più antiche del mondo).
Una scelta che ha concesso molto alla scenografia (le moschee restando un must nella ritualità dei comportamenti dei capi islamici), ma anche alla chiarezza del messaggio, rimarcando l'adesione alla sunna e, quindi, segnando ancora di più le distanze con chi - l'Iran sciita - ha appoggiato Assad, esponente della corrente alawita.
In piedi davanti al mihrab, la nicchia di marmo bianco che indica la direzione della Mecca, al-Jolani ha celebrato ''una vittoria per la nazione islamica, per i prigionieri, i torturati e coloro che hanno subito ingiustizie''. Una scena immortalata da una folla di fedeli e curiosi, smartphone in mano, simbolo dell'ascesa di una figura politica con responsabilità molto pesanti.
A capo della fazione ribelle più potente, al-Jolani ha in mano le chiavi dell’era post-Assad, almeno una parte significativa di essa. Attraversato la nebulosa jihadista, con la quale sostiene di aver rotto, definito ''terrorista'' dalle capitali occidentali e, allo stesso tempo, artefice della creazione di istituzioni di rara efficacia nel panorama rivoluzionario siriano, egli incarna sia le speranze che i pericoli della transizione politica.
Al momento, tra le voci positive dell'offensiva lampo dei miliziani, da Idlib ad Aleppo, Hama, Homs e infine Damasco, c'è il fatto che, per quanto se ne sa, non ci sono stati senza atti di vendetta o violenza gratuita. Un'operazione portata avanti nell'arco di dodici giorni, scanditi da messaggi attentamente calibrati, volti a rassicurare le minoranze religiose ed etniche siriane, come curdi, cristiani e alawiti, inevitabilmente preoccupate per l'avanzata islamista. Questa considerazione poggia sul fatto che la disciplina non era stato il punto di forza dei ribelli anti-Assad. Il loro ardore nel combattimento era stato spesso contaminato da soprusi, minato da divisioni interne, perfino da lotte fratricide. Se lo scioglimento delle truppe regolari, che spesso hanno scelto di non combattere, ha facilitato il compito di HTC, la rottura con gli errori del passato non è meno evidente.
''La rivoluzione è passata da uno stato di caos e incoerenze a un sistema più ordinato, sia nel campo civile che in quello militare'', ha detto al-Jolani in un’intervista alla CNN, quando le sue truppe avevano appena Aleppo.
Oggi tutti guardano al nuovo uomo forte della Siria chiedendosi se il suo cambiamento - da giovane combattente di al Qaeda due decenni fa, a comandante ribelle che sposa la tolleranza settaria - sia reale e non invece una operazione di facciata, per proporsi come interlocutore affidabile per il resto del mondo.
"Questa vittoria, fratelli miei, è una vittoria per l'intera nazione islamica", ha detto alle poche decine di persone ammesse nella moschea. Un messaggio anche per i siriani appena liberati. "Questa vittoria, fratelli miei, per grazia di Dio Onnipotente viene dai sacrifici dei martiri, delle vedove e degli orfani. Questa vittoria, fratelli miei, è giunta attraverso la sofferenza di coloro che hanno sopportato la prigionia".
Parole che dovrebbero rassicurare un Paese in cui si fondono più religioni, nei modi diversi in cui esse si declinano: cristiani, drusi, musulmani sciiti, ismailiti e altri ancora.
Eppure le parole che ha scelto al-Jolani sembrano destinate a rompere quei vecchi limiti. "Questo nuovo trionfo, fratelli miei, segna un nuovo capitolo nella storia della regione, una storia piena di pericoli che hanno fatto della Siria un parco giochi per le ambizioni iraniane, diffondendo settarismo, fomentando corruzione".
Prendere di mira l'Iran sembra essere un messaggio alla teocrazia di Teheran: la sua ingerenza è finita, il suo facile accesso via terra al suo rappresentante Hezbollah in Libano è finito, il suo sostegno all'Hezbollah siriano è finito e anche la sede che un tempo ospitava le scorte di armi dell'Iran è finita.
Ma è un messaggio che Jolani saprà essere ascoltato a Tel Aviv e Washington, dove è considerato un membro di un'organizzazione terroristica proscritta con una taglia di 10 milioni di dollari sulla sua testa. Un messaggio che dice loro che "i vostri interessi sono compresi nella nuova Siria", e una comprensione da parte sua che queste sono le potenze in grado di farlo cadere.