Cultura

Pompei sorprende ancora: scoperti insediamenti precari post-eruzione

Redazione
 
Pompei sorprende ancora: scoperti insediamenti precari post-eruzione

C’è una Pompei che conosciamo tutti: quella cristallizzata nel tempo, sospesa sotto metri di cenere, travolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., pietrificata nel momento del disastro. Ma c’è anche una Pompei che riemerge ora, con nuove storie, nuove vite, nuove scoperte. Una Pompei che, anziché morire, ha tentato di sopravvivere tra le rovine.

Pompei sorprende ancora: scoperti insediamenti precari post-eruzione e nuove verità sulla dieta degli antichi

E un'altra ancora che, dopo duemila anni, continua a raccontare le abitudini quotidiane dei suoi abitanti: cosa mangiavano, come coltivavano, come allevavano. Due scoperte recenti, che restituiscono al sito archeologico più celebre al mondo una vitalità sorprendente, fatta di miseria, resilienza e quotidianità. La prima rivelazione, riportata dal The Guardian e da altri media internazionali, arriva dagli ultimi scavi effettuati nell’area archeologica: Pompei non fu abbandonata del tutto dopo l’eruzione.

Alcuni sopravvissuti, forse tra i più poveri, ritornarono a vivere tra le macerie, insieme a nuovi arrivati in cerca di fortuna. Si trattava, secondo gli archeologi, di un insediamento precario, quasi un accampamento sorto tra le rovine fumanti di una città che un tempo ospitava oltre 20.000 anime. «A giudicare dai dati archeologici, doveva trattarsi di un insediamento informale in cui le persone vivevano in condizioni precarie, senza le infrastrutture e i servizi tipici di una città romana», hanno dichiarato gli studiosi che stanno analizzando il sito. Niente strade lastricate, niente terme o teatri. Al posto dei piani terra crollati, cantine con forni improvvisati e piccoli mulini.

E sui resti delle vecchie case, i superstiti cercavano di ricostruire una parvenza di quotidianità. Secondo Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico, «la Pompei del dopo '79 riemerge, più che una città, un agglomerato precario e grigio, una specie di favela tra le rovine ancora riconoscibili della Pompei di un tempo». Un'immagine che colpisce e destabilizza: abituati a pensare Pompei come un istante congelato nell’orrore, scopriamo ora che la vita, ostinata, ha provato a rimettere radici tra le crepe di una catastrofe. Ma per secoli questa storia è stata ignorata, persino cancellata. «In passato erano state individuate prove della rioccupazione del sito, ma nella fretta di accedere ai colorati affreschi di Pompei e alle case ancora intatte, le deboli tracce della rioccupazione vennero spazzate via senza alcuna documentazione», ha ammesso lo stesso Zuchtriegel.

La seconda scoperta, apparentemente più silenziosa, ci porta invece nella quotidianità del cibo. Una ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports e rilanciata da Reubblica - frutto della collaborazione tra il Parco archeologico di Pompei, l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, l’Università La Sapienza di Roma e quella di York – getta luce dieta pompeiana. Non più soltanto affreschi di banchetti o resti carbonizzati nelle taverne: ora ci sono dati scientifici precisi, ottenuti grazie all’analisi degli isotopi di carbonio e azoto contenuti nei resti organici. Cosa mangiavano, dunque, i pompeiani? La loro alimentazione era molto più articolata di quanto si pensasse. Cereali, legumi, risorse marine e carni derivanti da allevamenti diversificati di pecore, capre e suini formavano la base della dieta. E, sorprendentemente, i suini sembrano mostrare una grande variabilità nel regime alimentare, segno di una gestione flessibile degli animali, forse adattata alle diverse disponibilità stagionali o economiche. Le risorse marine – a lungo celebrate nelle fonti letterarie – trovano ora conferma scientifica: pesce, molluschi, e forse anche frutti di mare, arricchivano la dieta di una popolazione che, seppur distante dal mare, sapeva sfruttarne appieno i doni. Non meno importante è lo studio sulla coltivazione.

Legumi e cereali – probabilmente orzo, farro, lenticchie – venivano coltivati localmente, con tecniche che si stanno ora cercando di ricostruire attraverso analisi molecolari e archeobotaniche. «La ricerca continua anche dopo lo scavo», ha sottolineato ancora Zuchtriegel. «Anzi, come mostra questo studio, un attento esame di testimonianze portate alla luce anche tempo fa, grazie all'uso di analisi e metodologie nuove, ci apre interi orizzonti di cui prima non avevamo idea». Il futuro della ricerca pompeiana è, insomma, tutt’altro che chiuso. Al contrario, Zuchtriegel annuncia nuovi investimenti, soprattutto nell’ambito dello studio dei resti umani e dei materiali organici, convinto che «la mole di dati potenzialmente ricavabile da analisi come queste non è nemmeno quantificabile, perché dipende dal progresso tecnologico e metodologico in corso». Un laboratorio vivente, dunque, di conoscenza, memoria e scoperte continue.

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