Il rendimento del decennale statunitense rappresenta uno dei tassi d’interesse più importanti ed influenti al mondo e la sua traiettoria recente ha suscitato la perplessità degli investitori: dal 3,87% di inizio 2023, è prima sceso al 3,31%, poi salito al 4,99% lo scorso autunno, per poi concludere l’anno al livello di partenza. Ad oggi, il rendimento del Treasury decennale si aggira intorno al 4,50%. Risalire al “fair value” del Treasury a 10 anni è il sogno di qualunque investitore obbligazionario ed è possibile solo se si mettono in relazione le variabili storico-economiche, provando ad identificare le tre componenti che definiscono i rendimenti nel lungo termine, cioè l’inflazione attesa a 10 anni, la curva dei tassi d’interesse a breve termine (corretti per l’inflazione), e l’extra remunerazione che gli investitori richiedono per sottoscrivere obbligazioni a lunga scadenza.
Per quanto riguarda il primo “ingrediente” della ricetta, è possibile risalire alle attese del mercato per l’inflazione a 10 anni attraverso il tasso di inflazione di pareggio a 10 anni, a sua volta dato dal differenziale di rendimento tra i Treasury Inflation-Protected Securities (TIPS) e i Treasury nominali. Ad oggi le aspettative di inflazione rimangono solide (vedi grafico sotto), dal momento che gli investitori confidano nel ritorno dell’inflazione vicino al target del 2%. Tuttavia, a nostro avviso, occorre ampliare la prospettiva e considerare che prima del terzo millennio, i tassi d’inflazione a lungo termine si aggiravano intorno al 6% negli Stati Uniti e al 10% nel Regno Unito, perciò gli ultimi tre decenni potrebbero rappresentare delle “anomalie” sul fronte macroeconomico a livello globale.
Esiste pertanto l’ipotesi che, nell’era post-Covid, l’inflazione si assesti su livelli più elevati rispetto agli ultimi vent’anni. Del resto, una volta raggiunto l’apice, i prezzi hanno storicamente impiegato diverso tempo (dai cinque ai sette anni) a rallentare e l’ultimo miglio del percorso di disinflazione si è spesso rivelato il più tortuoso, a causa del lento recedere dei prezzi dei servizi (vedi figura sotto). Ad oggi, con la normalizzazione delle catene di approvvigionamento, abbiamo assistito al rapido calo dei prezzi dei beni, mentre quelli dei servizi sembrano meno reattivi. Ad ogni modo, la potente combinazione di politiche fiscali e monetarie dell’era Covid se, da un lato, ha portato all’esplosione dell’inflazione, dall’altro ha testato la solidità del mercato del lavoro che oggi sembra in buona salute. Questo potrebbe indurre i policymaker più orientati all’occupazione a preferire la situazione attuale alla crescita stagnante degli anni ’10 del 2000 e quindi a optare per un target di inflazione più elevato rispetto al recente passato. Come investitori, ci sembra quindi prudente considerare un livello di inflazione di pareggio leggermente più alto, intorno al 2,5%, rispetto all’1,6% degli anni 2010.
Passando al secondo “ingrediente”, per risalire al “fair value” del Treasury a 10 anni occorre considerare anche la curva attesa dei tassi d’interesse a breve termine, corretti per l’inflazione. L’andamento del tasso sui Fed Funds può essere un ottimo punto di partenza, anche se nel breve termine il percorso dei tassi può variare notevolmente come conseguenza sia delle decisioni di politica monetaria, sia delle attese del mercato sull’evoluzione dei tassi (cd. Forward Guidance). Per questo, per stimare la traiettoria dei tassi a breve termine, la strada migliore, invece che analizzare le previsioni implicite del mercato per l’andamento del tasso nominale sui Fed Funds, è considerare l’andamento di fattori non monetari come il rendimento atteso sugli investimenti, che varia in relazione alla crescita reale prevista e che rappresenta uno dei principali driver dei tassi d’interesse reali (vedi grafico sotto). Ad esempio, i tassi a breve termine più bassi o addirittura negativi a cui abbiamo assistito negli anni 2010 riflettevano una crescita economica stagnante e un sentiment pessimista sulla congiuntura economica e sul rendimento degli investimenti.
Ad oggi il sentiment dovrebbe essere in miglioramento, riflettendo una più favorevole congiuntura economica. Anche la produzione reale potrebbe assestarsi su valori più elevati rispetto allo scorso decennio, complice l’aumento della forza lavoro che negli ultimi tre anni è cresciuta ad un tasso medio annuale di oltre l’1,4%, contro lo 0,7% degli anni 2010. Un ruolo decisivo nell’aumento della produzione reale è giocato poi dalla produttività, che misura quanto viene prodotto da un singolo lavoratore per ogni ora lavorata e che negli ultimi 12 mesi è cresciuta del 2,9% (contro una media del +1,3% negli anni ’10). Se si analizza la produttività del lavoro Usa nel periodo post-bellico, si nota come si siano alternati quattro regimi ad alta e bassa crescita: l’ultimo regime ad alta crescita si è verificato dal 1997 al 2005, dopo 25 anni a bassa crescita. Più che il capitale o la forza lavoro, ad influenzare la crescita della produzione reale saranno soprattutto le nuove idee, che siamo certi non mancheranno nell’era dell’IA e dei modelli linguistici di grandi dimensioni (“Large Language Model”). Per questo, siamo convinti che, sull’onda di un aumento della produzione reale (+2% circa) assisteremo ad un tasso d’interesse reale più elevato rispetto al decennio precedente, intorno al 2%.
Dopo aver analizzato inflazione e tasso di interesse a breve termine, manca all’appello l’ingrediente finale, il premio che gli investitori vogliono vedersi riconosciuto per bloccare il proprio capitale per dieci anni, un periodo sicuramente non breve. Gli economisti si servono di diverse variabili finanziarie e macroeconomiche per stimare il “term premium” e uno dei modelli più comuni è il 10y Term Premium di Adrian, Crump e Moench, che nell’ottobre 2023 ha toccato lo 0,34%, il valore più elevato dal 2015. In virtù dell’incertezza che nell’era post-Covid circonda il prossimo decennio, pensiamo sia prudente considerare un term premium superiore rispetto al passato. Soprattutto alla luce delle dichiarazioni del Tesoro Usa, che ha già previsto 6.300 miliardi di dollari di nuovo debito pubblico in emissione nei prossimi tre anni, una cifra abnorme se si considera che nel 2009 l’intero stock di debito in circolazione era pari a 6.300 miliardi di dollari.
In conclusione, gli investitori dovrebbero essere compensati per l’inflazione, il rischio di inflazione e altri rischi collaterali, oltre che premiati per la crescita reale dell’economia. Supponendo che inflazione e tassi di interesse reali si stabilizzino su livelli più elevati nei prossimi dieci anni (rispettivamente +2,5% e +2,0%) e che gli investitori richiedano un term premium più elevato (0,5%), mettendo queste tre variabili in prospettiva, risulta un “fair value” del Treasury a 10 anni del 4,7%-5,1%. Ovviamente nessuno ha la sfera di cristallo, ma osservando la Storia e le variabili economiche è possibile avere un’idea più chiara del quadro complessivo.