Economia

Lunga vita al re Dollaro

Jeffrey Cleveland, Chief Economist di Payden & Rygel
 
Nonostante le previsioni di un paio di anni fa, quando era stato pronosticato un crollo del 30-40% del dollaro americano, dal 2022 ad oggi la valuta statunitense è in rialzo di oltre il 30% rispetto a quelle di altri Paesi sviluppati, come ad esempio lo Yen giapponese. Se poi si amplia la prospettiva, si osserva che dal 2011 ad oggi il dollaro Usa è in rialzo di quasi il 40% rispetto ad un ampio paniere valutario. Tuttavia, intorno al ruolo del dollaro all’interno del sistema finanziario globale si affollano ancora oggi preconcetti che inducono spesso in errore investitori e policymaker. Anzitutto, al contrario di quanto pensano molti, il sistema valutario globale e il ruolo del dollaro in esso non sono stati progettati a tavolino, ma sono il frutto di un’evoluzione organica. Per gran parte della loro vita, gli Stati Uniti hanno bandito la cartamoneta a favore di uno standard bimetallico (basato su oro e argento). Solo nel 1907 il Congresso ha creato la Federal Reserve che ha poi emesso le “Federal Reserve notes”, ha concesso prestiti alle banche in crisi di liquidità e ha imposto il regolamento alla pari degli assegni (prima di allora gli assegni emessi da banche diverse erano soggetti a sconti differenti). Più tardi, durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, la posizione favorevole degli Stati Uniti, geograficamente isolati dai campi di battaglia, ha permesso loro di diventare il centro del sistema finanziario globale, con il 40% delle riserve auree mondiali. Il mercato dell’Eurodollaro, cioè l’insieme dei depositi e dei crediti denominati in dollari in essere presso banche operanti in Europa, nacque invece negli anni '20 e venne rilanciato negli anni '50, quando le banche londinesi cominciarono ad accettare depositi e fare prestiti in dollari (e altre valute). Successivamente, la chiusura della “finestra d’oro” da parte del presidente Nixon nel 1971, interruppe il legame tra dollaro e oro, per il timore che i moltissimi detentori di dollari all’estero potessero chiederne la conversione in oro. Il dollaro vacillò ma non crollò e i Treasury sostituirono l’oro come principale asset di riserva. Le crisi dei giorni nostri hanno consolidato ulteriormente il regno globale del dollaro: durante la crisi finanziaria globale del 2008, la Fed ha prestato 10.000 miliardi di dollari in swap lordi alle sue principali controparti straniere, e lo stesso ha fatto durante la pandemia da Covid-19, a dimostrazione di quanto il ruolo del dollaro sia fondamentale per l’economia globale (vedi Figura 1). Il sistema del dollaro globale ha quindi resistito alla prova del tempo e si è dimostrato più resiliente e duraturo dei sistemi che lo hanno preceduto.


Nessun rivale all’orizzonte

Sebbene esistano circa 180 valute nel mondo, solo un numero ristretto di esse gioca un ruolo di primo piano nel commercio internazionale, nella finanza e nelle riserve valutarie delle principali banche centrali. Tra queste, il dollaro è decisamente la più importante e il suo status è rimasto pressoché inalterato nel corso degli ultimi decenni. Secondo l'indice valutario internazionale costruito dalla Fed, il dollaro ha infatti mantenuto la leadership indiscussa tra le riserve valutarie, nel volume delle transazioni, nell'emissione di debito in valuta estera, nonché nei crediti bancari internazionali. L’euro si posiziona al secondo posto con un punteggio di 23, un terzo del punteggio del dollaro Usa, anche se superiore alla somma delle tre valute successive messe insieme, yen giapponese, sterlina britannica e renminbi cinese. Quest’ultima, in particolare, in passato era vista come la valuta che avrebbe spodestato il dollaro Usa, ma all’indomani della crisi del mercato azionario cinese del 2015, la mancanza di piena convertibilità, l’incertezza del quadro normativo e l’illiquidità dei mercati finanziari l’hanno resa una contendente improbabile, almeno per il prossimo futuro. Nel 2015, i Paesi con valute ancorate al dollaro (senza contare gli Stati Uniti) rappresentavano il 50% del PIL mondiale, contro il 5% delle economie legate all'euro (Eurozona esclusa).


Non crediamo sia in atto quella che molti detrattori chiamano una “de-dollarizzazione”, tesi secondo cui le principali economie preferiranno utilizzare altre valute per evitare le sanzioni inflitte dai policymaker statunitensi. Anzitutto, le sanzioni sono più comuni di quanto si pensi: già nel 1935, la Lega delle Nazioni (predecessore delle Nazioni Unite) sanzionò l'Italia per l'invasione dell'Etiopia, vietando prestiti e rifornimenti militari e, in tempi più recenti, le sanzioni si sono ripetute con Libia (2011), Iran (2012), Venezuela (2019) e Russia (2022). In secondo luogo, non si possono sottovalutare i benefici della “dollarizzazione”, dal momento che il dollaro consente di raggiungere l’80% degli acquirenti e dei venditori nel mercato commerciale globale e di accedere al mercato finanziario più ampio e liquido del pianeta. Secondo una ricerca del National Bureau of Economic Research (NBER), il valore nominale del dollaro è direttamente legato alla crescita delle economie globali, soprattutto nei mercati in via di sviluppo. In effetti, in passato è già successo che il rafforzamento del dollaro (a causa di tassi d’interesse Fed più elevati o di tensioni internazionali sul finanziamento in dollari) portasse a una riduzione dei prezzi degli asset a livello globale e del volume degli scambi commerciali. Inoltre, la Fed si è dimostrata un’affidabile garanzia per tutti gli operatori del mercato finanziario globale durante le crisi passate, in particolare attraverso le linee di swap e gli accordi di riacquisto con l’estero. Per questo, forse è meglio accettare il rischio di sanzioni associate al dollaro piuttosto che utilizzare valute sostenute da riserve auree limitate o di Paesi con rigidi controlli sui capitali, poco inclini a sostenere un deficit fiscale. Infine, se pagare in dollari non è un diritto ma un privilegio, può avere senso escludere i Paesi che “giocano sporco” dall'ecosistema finanziario del dollaro. Se, da un lato, le sanzioni potrebbero dissuadere alcuni Paesi dal detenere Treasury Usa come riserve, dall’altro, è improbabile che chi già detiene le sue riserve in dollari possa cambiare strada. Molti, adducendo i 27.000 miliardi di dollari di debito negoziabile in circolazione, temono che la valuta statunitense sia sull’orlo del collasso: è una storia vecchia, che dura da almeno 30 anni, anche se finora l’accumulo del debito nazionale non ha ancora portato a un aumento dei rendimenti o all'insolvenza. Inoltre, ogni dollaro di debito non rappresenta soltanto una passività del governo degli Stati Uniti, ma anche un asset per un altro investitore. Un asset molto popolare anche tra gli investitori stranieri, forse per una questione di affidabilità e liquidità, con 870 miliardi di dollari di scambi medi giornalieri1 , oltre che per il fatto che offre rendimenti interessanti (il rendimento dei T-bills è pari al 5,33% rispetto a un'inflazione core del 2-3% nel 2024). La questione del debito è quindi, a nostro avviso, sopravvalutata. Il costo medio del debito Usa a luglio era del 3,4%, ancora basso rispetto al passato recente, grazie allo status del dollaro di valuta di riserva mondiale e ai decenni di stabilità dei prezzi che abbiamo visto a partire dagli anni ’90 (vedi Figura sotto). Inoltre, i costi d’interesse netti, che incorporano i costi medi e il totale del debito in essere, hanno raggiunto il 2,4% del PIL nominale nell'anno fiscale 2023, ma sono ancora al di sotto del massimo storico del 3,3%. A meno che il tasso sui Fed Funds non rimanga al di sopra del 5% ancora per qualche anno, riteniamo che l'attuale traiettoria dell'onere del debito statunitense resterà gestibile.

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