Roberto Palumbo, primario nell'ospedale Sant'Eugenio di Roma, a detta dei suoi estimatori, è un luminare e, grazie alla sua preparazione, ha consentito a molti pazienti di riappropriarsi della vita.
Roberto Palumbo, a detta della Procura della repubblica di Roma, è un maneggione che, grazie ad un sofisticato gioco di pesi e contrappesi della propria fama, ha lucrato sulla vita di decine e decine di malati che lui, dall'alto della sua cattedra, smistava in strutture private per la dialisi in cambio di denaro e altre ''utilità'', come si chiama ora il turpe mercato ''io do una cosa a te, tu ne dai una a me'' o a qualcun altro che io di indico.
Tremila euro per ogni paziente inviato a dialisi nel privato
Se il garantismo impone di aspettare che le indagini facciano il loro corso e l'inchiesta definisca l'esatto perimetro delle attività di Palumbo, questa vicenda merita delle considerazioni che non sono solo quelle del trito lamentarsi dello stato della nostra sanità e di come, dentro ed intorno ad essa, si muovano personaggi disposti a tutto, in un'ottica in cui il presente e il futuro vanno di pari passo.
Perché storie come questa - sempre che la Procura ci abbia visto giusto, anche se il fatto che Palumbo sia stato beccato con le dita nella marmellata, mentre intascava una mazzetta o comunque del denaro che percepiva in nero - devono fare riflettere sull'oggi per pensare a come evitarle domani.
Se è vero che il prezzario di Palumbo prevedeva tremila euro per indirizzare un paziente dializzato in una struttura non pubblica, c'è da chiedersi quanto il privato guadagni, se dall'ammontare dell'assistenza deve togliere un ben po' di soldi, in nero e quindi ''persi'' dal bilancio ufficiale.
Eppure, secondo la Procura, era proprio questo che accadeva, e non da ieri.
La sola domanda da doversi porre non è perché sia accaduto (l'avidità attecchisce soprattutto in casa di chi è ricco), ma come sia stato possibile che tutto avvenisse sotto gli occhi di molti, tra i quali certo anche qualcuno con funzioni di controllo, e che nessuno se ne sia avveduto.
La sola cosa che viene da pensare è che nel ''sistema Palumbo'' ipotizzato dai magistrati inquirenti siano stati coinvolti anche altri che, per paura o convenienza, hanno chiuso gli occhi, girato la testa dall'altra parte, messo una cuffia insonorizzante alle orecchie pur di dire di non avere sentito o visto qualcosa.
E' la conferma che davanti al denaro si vacilla troppo presto e, allo stesso tempo, che ripida e scivolosa è la strada dall'onestà dichiarata all'illegalità.
In questa brutta storia, oltre a Palumbo e a chi in qualche modo, forse anche obtorto collo, lo ha favorito, figurano anche gli imprenditori, i titolari o gestori di quei centri medici privati che garantiscono la dialisi a migliaia di pazienti, svolgendo una funzione vitale per loro.
Ma questo non cancella il puzzo di marcio, apprendendo che c'erano tabelle da rispettare, numeri e percentuali relativi allo smistamento dei malati, per dare ai centri medici ''amici'' la possibilità di spartirsi la torta.
E' chiaro che l'imprenditore che chiedeva ''attenzione'' a Palumbo lo faceva sapendo di aggirare le regole e, quindi, violare la legge. Ma in casi come questi è sempre difficile distinguere il corruttore dal corrotto, il concussore dal concusso. Ma alla fine c'è sempre qualcuno che si sente non più favorito, ma semplicemente spremuto e decide di parlare.
Se poi a questo aggiungiamo il fatto che, dalla cornucopia dei privati uscivano migliaia di euro che mensilmente venivano dati alla compagna di Palumbo a fronte di prestazioni professionali mai fornite, il quadro sconfortante riceve le ultime pennellate, almeno per il momento. Mettendo da parte quelle frasi che i medici recitano, quando indossano il loro primo ''vero'' camice e che riportano al giuramento di Ippocrate. Come quella che dice di impegnarsi per ''curare ogni paziente con scrupolo e impegno, senza discriminazione alcuna, promuovendo l'eliminazione di ogni forma di diseguaglianza nella tutela della salute''. Ecco, appunto.