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Uccise per stress da Covid: la cassazione cancella l'ergastolo

Redazione

Forse, e lo diciamo con il massimo rispetto per chi, indossando una toga, si assume l'enorme responsabilità di disporre del destino di altri, quando si prendono certe decisioni bisognerebbe guardare, oltre agli aspetti squisitamente giudiziari, anche le ripercussioni che esse possono avere nell'immaginario collettivo. Quello che chiede, per chi toglie, volontariamente, la vita ad un altro essere umano, a meno di non farlo per difendere la propria, una punizione esemplare. Che non significa metterlo in una cella e gettare la chiave, ma solo che la condanna che gli viene inflitta sia giusta.

Uccise per stress da Covid: la cassazione cancella l'ergastolo

È troppo chiederlo, senza per questo essere tacciati di cavalcare l'onda lunga del giustizialismo acritico?

Forse dovremmo interrogarci su questo, sul fatto che, negli ultimi tempi, stiamo assistendo a sentenze o decisioni che, seppure adottate nel pieno rispetto della legge, restano difficili da comprendere apparendo esse adottate sulla scia di una discrezionalità che rischia di essere difficile da spiegare.

L'ultimo esempio arriva dalla decisione della Cassazione di cancellare la condanna all'ergastolo per Antonio De Pace, oggi trentaduenne, che quattro anni fa, in una casetta del versante jonico della provincia di Messina, uccise, strangolandola, la fidanzata, Lorena Quaranta, che di anni ne aveva 27.

Un omicidio inspiegabile - apparentemente i due vivevano un'esistenza felice, con lei in attesa di laurearsi in medicina, mentre lui era infermiere - che per i giudici di primo e secondo grado meritava d'essere punito con l'ergastolo.

Non per la Cassazione che ha di fatto ipotizzato una sorta di ''attenuante Covid'' chiedendo che il giudizio venga rivisto, considerando l'ergastolo troppo afflittivo per un soggetto che ha agito sotto lo stress prolungato delle restrizioni adottate contro la diffusione del virus. 

Nella decisione, la Cassazione sostiene che ''deve stimarsi che i giudici di merito non abbiano compiutamente verificato se, data la specificità del contesto, possa, e in quale misura, ascriversi all’imputato di non avere 'efficacemente tentato di contrastare' lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio fosse evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica''. Quindi, se la condizione di disagio in cui l'assassino era caduto possa essere un ''fattore incidente sulla misura della responsabilità penale''.

Merita d'essere riportato il passaggio sostanziale della decisione della Corte: ''In un frangente storico drammatico in cui l’umanità intera è stata chiamata praticamente dall’oggi al domani a resistere a un pericolo sino a quel momento sconosciuto, invasivo e in apparenza inarrestabile, De Pace ha vissuto un disagio psicologico, poco a poco evoluto in ansia e quindi in angoscia per il quale ha pensato di raggiungere i genitori e i fratelli a costo di sottrarsi all’adempimento dei doveri di assistenza e solidarietà verso la compagna di vita''.

Non entrando nel merito delle considerazioni finali di questo assunto, resta di difficile metabolizzazione il concetto che la massa di problemi psicologici determinati dal confinamento imposto alla gente possa essere una spiegazione di comportamenti violenti, o addirittura, come in questo caso, una attuante da fare valere nel momento della determinazione della condanna.

Se questo principio - le privazioni derivate dalle strategia di contenimento del virus - fosse fatto valere universalmente, da domani chiunque sia stato condannato per violazioni di legge, anche con atti violenti, potrebbe chiedere che, alla luce della decisione della Cassazione nell'uccisione di Lorena Quaranta, la quantificazione della pena sia rideterminata sostenendo che i suoi comportamenti sono stati determinati dall'angoscia derivatagli dalla pandemia. Perché se il disagio psicologico è valso per Antonio De Pace (che, a detta del padre della vittima, mentre la sera Lorena era chiusa in casa a preparare la tesi, lui andava in giro in moto per raggiungere gli amici, infischiandosene delle prescrizioni anti-Covid), deve valere per tutti gli altri, anche se l'impatto delle privazioni della libertà personale poteva essere diverso. 

Ora De Pace può guardare con un minimo di fiducia al suo futuro, perché il ''fine pena: mai'' è stato cancellato dal suo fascicolo consentendogli di sperare che un domani, seppure ancora lontano, potrà tornare ad una esistenza fuori da una cella. Una speranza che lui ha tolto alla persona che gli voleva bene e verso la quale nutriva forse un sordo rancore perché la vedeva ad un passo dalla laurea e quindi da un traguardo al quale lui non poteva ambire.

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