Economia
Ofi Invest AM: Ecco cosa ha causato il crollo della borsa giapponese
Jean-François Chambon, Equity Fund Manager di Ofi Invest AM
I due principali indici azionari giapponesi, ovvero il Topix e il Nikkei 225, hanno chiuso il mese di agosto registrando una crescita rispettivamente dell’11,88% e del 12,42% da inizio anno. Ciò significa che il mercato è stato in grado di riprendersi molto in fretta dal crollo registratosi tra il 31 luglio e il 5 agosto scorso, quando i due indici hanno ceduto il 17,92% e il 17,15%, segnando il secondo peggior risultato dal 1987 a oggi.
Nonostante questa turbolenza sia stata ampiamente superata, vale la pena esaminare le cause che l’hanno provocata. Infatti, non basta affermare che sono state la liquidazione delle posizioni di carry trade e la forte ondata di vendite che il panico ha scatenato a trascinare a fondo le borse, in quanto anche questi episodi hanno le loro cause. La prima da citare è il cambiamento della politica monetaria attuata dalla Bank of Japan (Boj), la quale ha innescato un apprezzamento dello yen nei confronti del dollaro, deludendo le aspettative macroeconomiche più accreditate ed esacerbando ulteriormente l’incertezza geopolitica. Infatti, la decisione del 31 luglio di aumentare di 10 punti base i tassi d’interesse (dallo 0,15% allo 0,25%), dopo un ulteriore rialzo effettuato nel mese di maggio, ha reso lo yen una valuta più costosa, prendendo i mercati in contropiede. Come se non bastasse, la Boj ha anche fatto intendere che a questo avrebbero potuto far seguito ulteriori rialzi.
Accelerando un processo già in corso, la valuta giapponese si è apprezzata del 10% nei confronti del dollaro a partire dal 10 luglio e raggiungendo il picco il 5 agosto. Ciò ha fatto registrare perdite agli investitori che avevano deciso di acquistare yen per investire in altre valute sottoposte a tassi d’interesse più alti, spingendoli a liquidare le loro posizioni per limitare i danni e innescando un circolo vizioso sui mercati.
Come se non bastasse, anche la crescita globale dava e dà ancora oggi segnali di rallentamento, soprattutto in Cina, per la quale il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al ribasso le sue stime di crescita annua, portandole al 4,6%, la più bassa dal 1990 se si escludono gli anni della pandemia. Ma anche negli Stati Uniti il quadro non è migliore, infatti i timori di una recessione sono stati esacerbati dagli indicatori economici, come l’indice PMI del comparto manifatturiero al di sotto delle aspettative e una disoccupazione maggiore del previsto.
Infine, le persistenti tensioni geopolitiche, e in particolare i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente, continuano a turbare i mercati aggiungendo rischi aggiuntivi legati a possibili impennate del prezzo del petrolio. Tutto ciò ha comportato una generale perdita di valore degli asset e un aumento della volatilità.