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Cronaca di una tragedia annunciata

Barbara Leone
 
Cronaca di una tragedia annunciata

Un motociclista italiano di 48 anni è morto in Romania, sbranato da un’orsa che cercava di difendere i suoi cuccioli. È accaduto sulla scenografica e famigerata strada Transfăgărășan, tra le montagne dei Carpazi, teatro di un copione tristemente noto: l’ennesimo incontro ravvicinato tra uomo e orso, trasformato in tragedia. E se la morte di un essere umano è sempre una notizia che scuote, in questo caso la vera vittima — o forse le vere vittime — non sono solo da cercare tra le nostre specie. Stando alle ricostruzioni ufficiali, il centauro, parte di un gruppo di motociclisti in viaggio da Vidraru al Lago Bâlea, si sarebbe fermato lungo il tragitto per scattare alcune fotografie.

Sul suo telefono, recuperato ai piedi di un burrone profondo quaranta metri insieme al suo corpo, sono state trovate immagini eloquenti: l’uomo immortalava l’orsa e i suoi piccoli a distanza ravvicinata, con un comportamento definito dalle autorità “incauto”. Alcuni scatti mostrano persino un tentativo di offrire cibo all’animale con la mano.

Una scena già vista, purtroppo. E che puntualmente finisce nel sangue. Come da prassi, l’orsa è stata immediatamente identificata e abbattuta. Non c’è spazio, sembra, per distinguere la causa dall’effetto, l’aggressione dalla reazione. E così la natura, ancora una volta, paga il prezzo dell’imprudenza umana. E i cuccioli? Orfani, destinati probabilmente a una cattività forzata o, nella migliore delle ipotesi, a un centro di recupero, lontano dalla madre e dalla vita selvatica.

Insomma, la cronaca di una tragedia annunciata. Ma non solo. Perché questa storia, l’ennesima, non è altro che il simbolo di un’insofferenza moderna verso i confini naturali, di un egoismo che si traveste da spirito d’avventura. Su tutto, l’idea di “toccare con mano” la natura selvaggia, di catturarla in una fotografia, di collezionare likes al posto di esperienze autentiche, che continua a mietere vittime, spesso non quelle che meriterebbero. Non si tratta di gettare la croce addosso al motociclista, che ha pagato con la vita un gesto sconsiderato.

Ma è difficile, con onestà intellettuale, non osservare come il suo comportamento sia emblematico di un problema ben più ampio: quello di una crescente inconsapevolezza, se non proprio arroganza, verso gli equilibri naturali. Quanti turisti, ogni anno, si avventurano nel cuore di boschi e foreste, smartphone alla mano, ignorando cartelli, avvertimenti, regole di buon senso? Quanti si sentono invincibili dietro un obiettivo, dimenticando, come in questo caso, che un’orsa con i suoi cuccioli non è un’attrazione da safari, ma un essere vivente, istintivo, una mamma che difende la sua prole come chiunque altro? A nulla sembrano servire le continue denunce delle autorità locali.

Dragoș Ionescu, rappresentante del fondo di caccia della zona, lo ripete da anni: «Segnaliamo il problema da tempo, ma nessuno prende provvedimenti. I turisti continuano ad avvicinarsi agli orsi, a provocare situazioni pericolose, e noi veniamo messi alla gogna». Parole, le sue, che evidentemente cadono nel vuoto, sovrastate dal rombo delle moto, dai flash dei selfie e dall’illusione che basti una buona angolazione per domare l’indomabile. Peraltro, la zona di Arefu ospita circa 120 orsi, un numero ben superiore a quello previsto. E proprio questa abbondanza di fauna selvatica, invece di suggerire prudenza, pare essere diventata un’attrazione turistica. Come se un animale selvatico potesse essere inserito nell’itinerario con la stessa leggerezza di una sosta in un villaggio pittoresco. “Avvistare l’orso” è diventato un passatempo, dimenticando che l’orso ci vede, ci annusa, ci teme. E, se necessario, ci attacca.

La morte dell’uomo ha suscitato, giustamente, un’ondata di dolore e sgomento. Ma accanto a questo dolore, sorge anche una sensazione più amara: quella di un’occasione sprecata, l’ennesima, per riflettere sulla relazione fra esseri umani e ambiente. Perché, se da un lato è vero che l’uomo è stato ucciso, dall’altro non si può ignorare che la sua morte ha innescato una catena di eventi gravi per l’equilibrio naturale: un’orsa soppressa, due cuccioli strappati al loro habitat, una specie sempre più minacciata trattata come un fastidio da eliminare. La verità è che in questo racconto forse la parola “incidente” è fuorviante. Perché nulla di ciò che è accaduto era davvero imprevedibile. I cartelli c’erano. I regolamenti pure.

I precedenti abbondano. Eppure, ogni estate, la storia si ripete con tragica regolarità. Non per fatalità, ma per superbia. Certo, il mondo è pieno di ingenui, ma anche di irresponsabili. E nel mezzo, resta la natura, che non ha colpe se non quella di esistere secondo le sue leggi. Siamo noi, piuttosto, che continuiamo a comportarci da padroni in casa d’altri, illudendoci di poter ridurre a intrattenimento anche ciò che richiede rispetto, distanza, umiltà. In definitiva, dispiace per la morte dell’uomo, e ci mancherebbe. Ma, se è lecito dirlo, dispiace ugualmente, e sotto sotto anzi ancor di più, per la morte di quell’orsa, colpevole solo di fare ciò che ogni madre farebbe: la mamma. E dispiace per i cuccioli, per una foresta che si svuota di senso ogni volta che l’ignoranza la violenta. E dispiace, amaramente, per un’umanità che ancora non ha capito che la natura non è uno sfondo per le nostre imprese, ma un universo da contemplare con rispetto. Da lontano.

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