Da quando è tornato a sedersi nello Studio Ovale, con la stessa spavalderia di chi rientra nella propria suite dopo una breve vacanza, Trump ha regalato agli Stati Uniti e al mondo un campionario delle sue più brillanti bizzarrie. E così, tra proclami altisonanti sulla fine imminente di tutte le guerre del pianeta — questione di giorni, forse ore —, conferenze stampa che sembrano uscite da una sit-com degli anni ’90, revival trionfali dei suoi tweet più iconici (ora risorti come oracoli su Truth Social) e iniziative legislative che oscillano tra l’assurdo e il teatrale, riemerge come una cometa kitsch una sua vecchia, incrollabile ossessione: essere immortalato per l’eternità sul Monte Rushmore, accanto ai padri fondatori, come ultimo e definitivo sigillo della sua grandezza scolpita nella roccia.
Letteralmente. Sì, perché l’uomo che ama definirsi il più grande presidente della storia americana, forse di tutte le galassie conosciute non si accontenta di libri di storia o documentari in streaming. Trump vuole la pietra. Quella vera, incisa accanto ai padri fondatori: George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln. Come a dire: fate spazio ragazzi, arriva papà. A prendersi la briga di dare forma legislativa a questo sogno di granito è stata Anna Paulina Luna, deputata repubblicana della Florida nonché fan sfegatata del Donaldissimo nazionale ma soprattutto simbolo della sfrenata celebrazione del trumpismo, che ha presentato un disegno di legge per inserire ufficialmente il volto del 45esimo (e ora anche 47esimo) presidente sul più iconico monumento nazionale. “Cominciamo a scolpirlo”, ha scritto entusiasta su X, spiegando che “i risultati straordinari per il nostro Paese meritano il massimo onore”.
Ora, se qualcuno pensava si trattasse di una boutade estiva, dovrà ricredersi. La proposta è finita alla Commissione per le Risorse Naturali della Camera e — anche se per ora giace lì come un vecchio panino dimenticato — la macchina si è messa in moto. E non è la prima volta: già nel 2019, durante il suo primo mandato, Trump aveva rivelato all’allora governatrice del South Dakota Kristi Noem, gratificata nel secondo mandato con la nomina a Segretaria per la Sicurezza interna, il suo sogno scolpito. Lei, commossa o forse perplessa, gli regalò un modellino del Monte Rushmore con la sua effigie già integrata. Che dire, l’America è il Paese delle opportunità. Ora, però, il sogno si è fatto più concreto.
In una recente intervista, Doug Burgum — ex governatore del North Dakota e ora Segretario degli Interni — ha dichiarato che "c’è sicuramente spazio" sulla montagna per un nuovo volto. Una frase che ha fatto sobbalzare sia i democratici che i geologi. Perché, come spiegato più volte dal National Park Service, due sono i problemi principali: primo, il Rushmore è considerato un’opera d’arte conclusa; secondo, non c’è fisicamente spazio per un altro naso presidenziale. Ma Trump, si sa, non è tipo da lasciarsi fermare da dettagli geologici. Se una montagna osa negargli il volto, pazienza: lui non si ferma. Scolpirà allora l’intero pianeta a sua immagine e somiglianza, trasformando ogni collina in una ciocca della sua inconfondibile chioma ramata, ogni deserto in un campo da golf personale, ogni oceano in uno specchio dove contemplarsi. Capelli rossi compresi, naturalmente — perché nessuna opera del Creato sarebbe davvero completa senza quella celebre cresta, sospesa tra un fuoco sacro e una messa in piega del sabato sera. Ed ecco che torna in pista il progetto del “National Garden of American Heroes”: un parco monumentale con 250 statue a grandezza naturale delle “vere leggende americane”.
L’idea, annunciata nel 2020 tra fuochi d’artificio e slogan patriottici, è stata rispolverata poco tempo fa con piglio presidenziale e budget alla mano. Il Congresso ha già approvato uno stanziamento da 40 milioni di dollari. E chissà che una statua “a figura intera” di Trump non spunti proprio all’ingresso. Il luogo? Sempre le Black Hills, guarda caso a due passi dal Monte Rushmore. Un territorio però tutt’altro che neutrale. Le colline sono sacre per le tribù Lakota, che ne rivendicano la proprietà in base al Trattato di Fort Laramie del 1868. Un diritto riconosciuto dalla Corte Suprema nel 1980 — anche se il governo si è limitato a offrire un risarcimento da 1,3 miliardi di dollari, mai accettato dalle tribù. Per loro, quella terra non è in vendita.
Né per una miniera, né per una statua di Donald Trump con lo sguardo rivolto all’infinito. A rendere tutto ancora più esplosivo ci pensa la compagnia mineraria Pete Lien & Sons, che ha donato 40 acri a meno di un miglio dal monumento per costruire il “giardino degli eroi”. Peccato che la stessa compagnia sia coinvolta in progetti di trivellazione vicini a Pe’ Sla, sito sacro per i Lakota. Un dettaglio che non sembra preoccupare i promotori del progetto, ma che ha scatenato l’ira dei gruppi indigeni. “È assurdo che si parli di preservare la storia mentre si distrugge Pe’ Sla con la trivella in mano”, ha dichiarato Taylor Gunhammer del collettivo NDN. “Altro che onorare gli eroi americani, qui si cancella la memoria viva di un popolo”.
Anche Darren Thompson, portavoce del Sacred Defense Fund, ha chiesto una maggiore consultazione con le popolazioni locali. Ma per ora, l’unico dialogo attivo sembra essere tra Trump e il busto di Roosevelt. Poi… se la pietra non si può toccare, c’è sempre il marmo. E se non sarà marmo, magari sarà silicone, vetroresina o ologramma. Ma una cosa è certa: Donald Trump ha già scolpito il suo nome nella storia. Resta solo da capire se sarà in rilievo… o in grottesco.